martedì 31 gennaio 2012

Casuarina equisetifolia




Il genere Casuarina comprende 45 specie di alberi ed arbusti originari dell’Africa orientale, dell’Asia sud-orientale, Australia, Malesia e Madagascar. Linneo attribuì al genere il nome di Casuarina in riferimento al “casuario”, uno struzzo australiano il cui piumaggio ha una certa rassomiglianza con i rami senza foglie, tipici del genere.
Casuario
Casuarina equisetifolia è un bell’albero a portamento eretto, sempreverde, originario dell’Australia dove può raggiungere i 20 metri d’altezza. E’ una specie diffusa lungo le coste del Mediterraneo essendo molto resistente all’aridità e alla salsedine. Ha una chioma espansa, piumosa, formata da rami fitti e sottili a vegetazione pendente di color verde grigiastro che ricordano l’equiseto, una pianta palustre il cui nome latino vuol dire “crine di cavallo”.

A distanza la specie sembra una conifera potendo i rami apparire come robusti aghi di pino ma, avvicinandosi, è facile osservare che i rametti sono articolati e scanalati longitudinalmente presentando ai nodi delle piccolissime foglie squamiformi. I rami della casuarina botanicamente sono fillocladi cioè rami che svolgono funzione clorofilliana mentre le vere foglie sono ridotte a minutissime brattee. 
Fiori unisessuali
I fiori sono unisessuali  e di aspetto insignificante; ad essi  seguono frutti a forma di piccole pigne che spiegano il nome comune, attribuito alla specie, di pino australiano.

La casuarina è molto diffusa in Australia tanto che anche il più grande carcere per detenuti di sesso maschile a lungo termine si chiama “Casuarina Prison”.
Le radici di questi alberi possono instaurare rapporti simbionti con batteri azoto fissatori, come avviene per le leguminose, mettendo a disposizione sostanza organica su cui fare sviluppare le colonie batteriche e ricavando da esse azoto in forma minerale, utile per la nutrizione vegetale. 
A Miami Beach, Casa Casuarina o Versace house è un albergo a cinque stelle, categoria lusso dove, prenotare una camera costa, a notte, dai 3995 dollari in su.

giovedì 26 gennaio 2012

Buddleja madagascariensis

Non potevano chiamarla Ugo?
Antefatto
Penso che le nuove generazioni non abbiano il piacere della scrittura; il suono melodico di parole estese li disturba, tutto deve essere abbreviato, accorciato, scritto con ritmo sincopato fatto di consonanti attaccate, senza uno straccio di mezza vocale; c6 (ci sei?, sei presente?), msg (messaggio), cmq (comunque), cpf (ce la puoi fare), xkè (perché), Kimika (Chimica!!!); nello slang giovanile dei miei alunni, anche sui loro diari, i sentimenti sono ridotti ad un acronimo: tvb (ti voglio bene) con la variante tvtrb (ti voglio troppo bene); tat (ti amo tanto), tv1kdb (ti voglio un casino di bene), tadb (ti amo di bene)?!!! Con questi precedenti come spiegare agli studenti i capisaldi della botanica sistematica; come spiegare che no, è assolutamente vietato, accorciare, troncare, abbreviare il nome botanico latino delle diverse specie. Durante un’uscita didattica, di fronte ad un magnifico esemplare di Buddleja madagascariensis chiedo di ripetere e memorizzare il nome della specie; Buddleja (ancora, ancora, è corto e si può recepire) ma per l’aggettivo specifico è un disastro:ma-da-ga-sca-ri- en-sis:è troppo lungo! Dopo molti tentativi maldestri un alunno sbotta indispettito: ma prof.: non potevano chiamarla Ugo?
La specie
Buddleja madagascariensis è un arbusto sempreverde della famiglia delle Loganiaceae che, negli ambienti a clima mite, assume sviluppo notevole tanto che, in alcuni paesi tropicali (Hawaii e Nuova Zelanda) è considerata specie invasiva di difficile controllo, se spontaneizzata. Il paese d'origine è il Madagascar ma la si ritrova in un ampia fascia a clima mite arrivando in coltura all'aperto,  in Italia, fino alla Riviera Ligure, soprattutto se esposta a sud ed in posizione riparata.
Ha un portamento sarmentoso e dunque si presta ad essere utilizzata come se fosse un rampicante capace di addossarsi con il suoi lunghi tralci a muri di contenimento o alte recinzioni, ricoprendole.
Ha grandi foglie lanceolate, opposte, retinate, di colore verde scuro, con pagina inferiore di aspetto lanuginoso. Fiorisce in inverno quando all’apice degli esili tralci compaiono infiorescenze portate in pannocchie di colore giallo arancione  che durano a lungo, sino a primavera. Non è molto frequente ma è un peccato perché specie rustica, esuberante, decorativa. In un giardino vicino casa ce n'è un grande esemplare che ho fotografato per la prima volta ventuno anni fa; alla fine dell'estate gli danno una bella potatura rasa al muro e lui ogni anno ringiovanisce con nuovo vigore; gli sono molto affezionata e, da un po’ di tempo, lo chiamo... “Ugo”.

sabato 21 gennaio 2012

Moro, tarocco e sanguinello: arance d'inverno


Da destra a sinistra: moro, tarocco e sanguinello
“La gradisci una busta di arance?” “Ma certo e mille grazie” rispondo gentile alla cortese richiesta di un amico, anche se di buste di arance avute in regalo questa settimana a casa ne ho già tre; da mio cugino con l’hobby della campagna, dal collega e dall’amico del tennis.

la "busta d'arance"
Dalle nostro parti, Catania e provincia, gennaio è il mese in cui i giardini (per i non siciliani, gli agrumeti) sono carichi di arance; le varietà di arancio dolce tipicamente siciliane, quelle a polpa rossa, le varietà “moro”, “tarocco” e , più avanti con la stagione, anche “sanguinello”, hanno bisogno del freddo per pigmentare e completare la maturazione ed è perciò in gennaio che sono al top  e dunque sono pronte per essere consumate.

Tarocco
Gli agrumeti sono carichi di frutta ma, se la produzione non è da grandi numeri, la raccolta e la successiva commercializzazione non sono, oggi, remunerative. Un amico produttore, ha venduto ad inizio stagione, arance sulla pianta a 35 centesimi il chilo e si è ritenuto fortunato. “Anche se non ci guadagno”, mi dice, “potrò quantomeno riprendermi le spese e non lasciare marcire la frutta sugli alberi”. Tanta produzione: bassi prezzi; tanto bassi da non compensare adeguatamente i costi di produzione che, per gli agrumi, sono particolarmente elevati. La prima voce di spesa è il costo dell’acqua irrigua che viene fornita, a turni, e spesso con il contagocce dai Consorzi di bonifica; ci sono poi le lavorazioni, i trattamenti antiparassitari e le concimazioni; ad essi sono da aggiungere i costi della raccolta.  Fatti due conti, per molti produttori i ricavi non compensano le spese ed in caso di mancata vendita, e da qualche anno a questa parte è questa la regola, non resta che il consumo in famiglia e la distribuzione capillare ad amici e parenti.
Ma non è sempre stato così.

L’arancio dolce (Citrus nobilis) è specie originaria della Cina meridionale ed è arrivata in Europa ad opera dei portoghesi giunti in India nel 1498, doppiando il Capo di Buona Speranza al seguito di Vasco de Gama. I portoghesi introducono l’arancio dolce in patria e da qui, nel corso del XVI secolo, tramite i Genovesi, la specie giunge in Italia. Sarà per questo che in Liguria, sino al secolo scorso, gli agrumeti si chiamavano ancora“portogalliere” ed in Sicilia esisteva una varietà denominata “portualli”. La diffusione dell’arancio dolce o melarancia è inarrestabile; dapprima in Liguria, regione in cui, con lo sviluppo dell’industria dello zucchero, si diffonde la pratica di candire i frutti poi, con il miglioramento dei mezzi di trasporto, la produzioni di arance si sposta progressivamente in Sicilia che per posizione geografica e per il clima aveva condizioni ideali per la coltivazione e la commercializzazione della specie. L’esplosione dell’agrumicoltura nell’isola porta nel corso del 1800 al cambiamento dello stesso paesaggio agricolo siciliano ed anche i giardini di delizia delle case nobili vengono progressivamente trasformati in lussureggianti agrumeti. La Sicilia, dove si realizza principalmente la produzione di arance rosse a polpa pigmentata, conquista in breve la supremazia produttiva nel Mediterraneo che manterrà sino alla seconda guerra mondiale.
Ma, altri paesi produttori si affacciano sul mercato tanto che oggi l’arancio dolce è l’agrume più coltivato nel mondo e costituisce, dopo le banane, la frutta di più ampio consumo.
In tempi recenti le produzioni siciliane cominciano a perdere quote sempre crescenti di mercato a scapito delle arance a polpa bionda di provenienza straniera e il loro consumo diviene sempre più locale e circoscritto. Eppure le arance pigmentate delle varietà moro, tarocco e sanguinello, tipicamente coltivate nel catanese, oggi marchio IGP (Indicazione Geografica Protetta) , hanno peculiarità organolettiche di grande pregio.
I frutti presentano nella buccia e nella polpa particolari pigmenti rossi chiamati antociani, in aggiunta ai carotenoidi comuni a tutti gli altri agrumi, che svolgono importanti funzioni antiossidanti efficaci nella prevenzione dei tumori e inoltre è risaputo che gli agrumi sono ricchi di vitamine del gruppo C, importanti per il potenziamento delle difese immunitarie. In Sicilia mangiare troppe arance si dice che “mette debolezza”, faccia sentire deboli, e secondo mia madre il motivo è semplice. Durante la guerra, nelle campagne dove la famiglia di mia madre, come tante altre in Sicilia, si era rifugiata per sfuggire ai bombardamenti alleati, non c’era gran che da mangiare: solo le arance erano  in abbondanza visto che nessuno più le raccoglieva. E’ vero che a mangiare solo arance si sentivano deboli ma era grazie alle arance che se ne potevano lamentare.
"Ed allora, che ne dici: la gradisci una busta di arance?”; “Ma certamente e mille grazie.”
Bibliografia: F. Calabrese, La favolosa storia degli agrumi (in fotocopia)
Produttori
Distretto produttivo

martedì 17 gennaio 2012

Viburnum tinus: un arbusto utile e dilettevole

La maggior parte delle specie arbustive da fiore utilizzate in giardino lo sono in quanto dilettevoli; fogliame lucido e compatto, fioritura cromaticamente gradevole, frutti colorati, fiori profumati, sono caratteri tutti molto ricercati e apprezzati; ma come nel canto dove una buona esecuzione dipende non solo dall’acuto del solista ma anche dall’oscuro lavoro di bassi e contralti anche in giardino si dovrebbe tenere in maggiore considerazione la scelta di specie utili e adatte a costituire la giusta ossatura di un’armonica esecuzione giardiniera. Vibunum tinus è l’esempio classico di specie arbustiva da fiore utile e, in fondo, anche dilettevole, adatta a risolvere, grazie alla sua rusticità, numerose situazioni difficili: scarsa disponibilità idrica, forti escursioni termiche, terreno ombreggiato (che predilige) ma anche sole diretto (anche se la pianta perde un poco di vivacità nel colore delle foglie), terreno argilloso o con forte scheletro, pendii ripidi, prati inerbiti e chi più ne ha più ne metta.
Viburno, lentaggine, laurotino sono i nomi con cui è conosciuta comunemente la specie, un arbusto sempreverde della famiglia delle Caprifoliaceae (o, modernamente Adoxaceae) che pur spontaneo nelle regioni costiere del Mediterraneo (zona dell’olivo) sin dal XVI secolo ha avuto grande diffusione nei giardini dell’Europa centrale e in Inghilterra. La sua principale utilizzazione è come specie da siepe informale o come gruppi isolati o per creare una cortina sempreverde utile a mascherare angoli di servizio del giardino (pompe, bomboloni del gas, vasche d’acqua). Alla notevole versatilità di utilizzo e alla grande rusticità climatica è da aggiungere poi una piacevole forma estetica.
Arbusto di medio sviluppo, compatto, ben ramificato con foglie ovali opposte, lucide sulla pagina superiore, tomentose sotto, ha il pregio di fiorire in inverno e per lungo tempo. I fiori, numerosi, sono raccolti in cime ad ombrella, prima rosate, poi bianche a completa fioritura.
Ai fiori seguono frutti ornamentali di colore blu lucente, persistenti a lungo sulla pianta.
I siti specializzati o i cataloghi dei principali vivai vi diranno che ne esistono varietà a fiore rosa ( Eve Price), taglia più compatta (Compactum), foglie lucide (Lucidum), fogliame variegato (Variegatum), ma il modello “standard” è quello che preferisco; specie bella ma senza fronzoli caratterizzata da una sobria e delicata fioritura invernale che a dispetto del calendario mi fa sentire più vicina la primavera.

domenica 15 gennaio 2012

Un artista scultore di strada

Testa  in pietra bianca di Militello
Premessa
Le mattine che entro a prima ora, dovendo fare più di trenta chilometri per arrivare a scuola, parto per tempo; alle sette sono già in macchina e approfittando del traffico scarso prendo la circonvallazione per uscire di città; è una strada che non farei mai se fosse più tardi, troppe macchine, traffico caotico, duelli rusticani ad ogni rotatoria. Di prima mattina, invece, tutto procede con calma e ho tempo e voglia di predispormi mentalmente al lavoro scolastico, rilassarmi guardando le pubblicità degli enormi cartelloni pubblicitari (ritengo abusivi) e, poco prima dell’ultima rotonda, tentare di vincere la scommessa che mi gioco ogni volta: ci sarà oppure no l’artista scultore, con bandana in testa, che in ogni stagione dell’anno, già alle sette di mattina, staziona con i suoi manufatti in uno slargo incolto della strada più trafficata della città? Oggi scommetto che non ci sarà; fa freddo e chi vuoi che si fermi a quest’ora a comprargli qualcosa? Ma anche quest’oggi, come ogni volta, perdo la scommessa.
L’uomo è già al lavoro e passando veloce lo vedo scolpire con foga, su un banchetto di legno, le sue creazioni artistiche: meridiane in pietra bianca di Noto, stupende per muri assolati di case padronali , teste scolpite in foggia classica in pietra di Militello da porre a decoro di patii di campagna; sculture naif di pesci marini in schiuma di lava a cui trovare posto tra vasi di terrazze imbiancate.
Meridiana in pietra di Noto
L’artista scultore
Francesco Zingale si definisce: un “artista scultore di strada”. Con eloquio gentile risponde paziente alla mia richiesta invadente di raccontarmi di se e del perché si è scelto, da oltre due anni, un posto così poco artistico per svolgere il suo lavoro. “Mi piace il contatto con la gente e, anche se questa è una strada che non invoglia a fermarsi, non sono poche le persone motivate, come lei, che lo fanno. Nessuno vuole più fare il mio lavoro ma è anche vero che se qualcuno lo volesse fare non saprebbe da dove cominciare; io mi adopero, dunque, per divulgare la mia attività ponendomi in vista nel luogo più trafficato della città. Lavoro la pietra e cesello il rame sin da quando ero un ragazzo ed ho imparato andando a bottega da un anziano scultore di Paternò, il mio paese. L’estate la passo alle Eolie o nei luoghi di vacanze dove vendo le mie creazioni agli intenditori del nord; l’inverno lo passo al paese. Ho molto girato: Olanda, Germania; ho lavorato con gli Americani e, in Italia, ho esposto per Sgarbi a Salemi. Giro per la Sicilia in cerca di pietre che parlano, la pietra bianca di Ragusa, la pietra nera dell’Etna, la pietra vulcanica di Sortino, ancora più antica di quella etnea. I soggetti non ho da copiarli, li vedo nella pietra che mi chiama; un testa di fauno, un’antica meridiana, la balaustra di un antico balcone.

Stemma gentilizio

Cernia in pietra lavica a occhio di pernice con schiuma di lava

" Il mio è un mestiere che nessuno fa più" , continua, "ma talvolta vengono gli studenti delle "belle arti" a guardarmi lavorare, da soli o in un gruppo; se ne stanno seduti sul ciglio di strada osservando il lavoro del mio scalpello e mi chiedono: “Dov’è il modello che sta realizzando?”, “Dentro la pietra”, rispondo; “io devo solo aiutarlo ad uscire”.
Lo ascolto incantata e non andrei più via. Ma è tardi e la campanella scolastica non mi aspetta.
Chi volesse fare visita al maestro Zingale potrà trovarlo dalle sette di mattina al suo studio: circonvallazione di Catania, slargo incolto sulla destra prima dell’ultima rotonda per Misterbianco.

martedì 10 gennaio 2012

La Sicilia delle camelie


Ci sono specie botaniche che tutti conoscono: rose, camelie, peonie, azalee; sono tutte specie di antica tradizione giardiniera, regine dell’editoria, dei forum e dei siti specializzati; storia, tradizione, tecnica colturale di queste icone botaniche sono oggetto di tanta letteratura che sia esperti che profani giardinieri possono trovare livelli idonei di approfondimento. Delle camelie ad esempio tutti sanno che la specie arriva dal lontano oriente e nel settecento i primi viaggiatori occidentali la chiamavano “rosa giapponese” da cui il nome botanico di Camellia japonica. Che il nome del Genere si deve al gesuita Kamel (latinizzato in Camellius) e che il fiore divenne, al suo arrivo in Europa, uno status symbol come oggi gli ultimi iPad. E’ una pianta acidofila che non tollera la presenza di calcare nel terreno ed è perciò soggetta a fenomeni di clorosi ferrica che si evidenziano con foglie gialline e punta marrone seguite da deperimento, caduta dei fiori e morte. La coltivazione in vaso sarebbe più semplice perché la composizione del terriccio può avvenire ad hoc (e molti collezionisti e produttori hanno misture segrete per mantenere sempre lucido il fogliame degli esemplari in vaso) ma in realtà è molto difficile azzeccare la giusta combinazione di fattori e in caso di fallimento i veri esperti potranno sempre dire:ma che acqua usi? Non mi dirai acqua di rubinetto! La coltivazione di esemplari in piena terra è di maggiore soddisfazione perchè se tutto va per il meglio, con piante collocate in posizione ombreggiata e riparata, gli esemplari potranno raggiungere dimensioni di piccolo alberello. Le aree vocate per la coltivazione della camelia sono, in Italia, il Lago Maggiore e la Toscana ed è qui che si concentra la maggior parte dei vivaisti e dei collezionisti della specie ma la camelia è presente in collezioni di pregio anche nel Lazio, ad Ischia e presso la Villa Reale di Caserta. Così come per le rose anche per la camelia ci si è sbizzarriti con l’ibridazione ed è, pertanto, possibile soddisfare ogni esigenza di habitus, forma e colore del fiore. Infine, manco a dirlo, la fioritura della camelia avviene in inverno, un periodo dell’anno in cui non c’è concorrenza da sbaragliare. Sulla camelia non ci sarebbe altro da dire ma forse non tutti sanno che anche in Sicilia, in un areale ben circoscritto del versante sud orientale dell’Etna, la coltivazione della camelia avviene in piena terra e con successo sia nei giardini delle ville ottocentesche che nei modesti cortili delle case padronali. Il microclima di questa fascia altimetrica che dal mare sale fino a 600 metri di quota è, in questa zona dell’Etna, molto piovoso risentendo della vicinanza della costa e le temperature estive, seppure elevate, non sono eccessivamente torride, soprattutto nelle località intorno ai paesi di Viagrande e Zafferana etnea dove la camelia è di casa.
I terreni etnei sono poi molto sciolti formati da sabbia vulcanica e scheletro di piccole dimensioni con elevata capacità drenante; sono terreni a reazione sub-acida, ricchi di microelementi come ferro e rame e poveri di azoto e calcio. Condizioni pedoclimatiche queste, ideali per la camelia che cresce vigorosa in piena terra anche tra le peggiori condizioni che un esperto di camelie potrebbe immaginare. Come, ad esempio, il giardino di mio fratello. Si tratta di un fazzoletto di terra che circonda una casa in affitto; posto vicinissimo al mare anche se in posizione riparata è stato, insieme alla casa sfitta, abbandonato per molti anni. All’arrivo di mio fratello una squadra di tagliaboschi più che di giardinieri lo ha ripulito da tonnellate di tralci di bouganvillea mettendo in luce, tra l’altro un bellissimo alberello di camelia che, potato anch’esso selvaggiamente, non si è scomposto più di tanto ricoprendosi, nell’ inverno successivo di una moltitudine di semplici, fiori bianchi, teneramente rosati.

Mio fratello non vi si dedica affatto: utenza idrica normale, utilizzata più che altro per innaffiare il prato, nessun concime specifico, potature drastiche del giardiniere Frankenstein, tre cani in giardino che scavano in continuazione; ma la camelia catanese non solo fiorisce ogni anno per un lungo periodo ma anche fruttifica ed è così da quattro inverni in serie.
Ma non finisce qui. In un vascone di terra da riporto posto in un piccolo lucernaio a cielo aperto c’è un altro esemplare di camelia a fioritura più tardiva. Anche lei è già piena di boccioli bianchi venati di rosso, con foglie di un verde lucido  intenso ed un aspetto di piena salute.
Si tratta di un miracolo botanico o forse troppe attenzioni fanno male e vale, anche per le piante, il detto “Vivi e lascia vivere!
Per saperne di più sulla coltivazione della camelia

mercoledì 4 gennaio 2012

Quiz botanico - gennaio 012

Cinque indizi per una specie
Genere
Specie


I miei aghi e, dunque, il mio Genere, ricordano il piumaggio di un grande uccello australiano, simile ad uno struzzo, dal carattere timido e schivo;

Nello specifico, mi chiamano, “crine di cavallo”;

La presenza di batteri nell’apparato radicale mi rende molto simile ad una fava;


In Australia occidentale a sud di Perth, sono un carcere maschile di massima sicurezza;

A Miami Beach c’è un albergo che porta il mio nome, è la Versace House dove le camere costano a notte a partire da 3995 dollari (alta stagione, però);


Soluzione
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