sabato 29 agosto 2015

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SOLUZIONE
 

 

domenica 23 agosto 2015

Nikolaj Vavilov e l'origine delle piante coltivate

Di lui e del suo libro si parlerà a Murabilia  il 4 settembre 2015
Nikolaj Vavilov  è per me il ricordo di un nome lontano che risale ai tempi dell’ Università quando, studiando in modo matto e disperatissimo, incameravo miriadi di informazioni  per il breve tempo dell’esame, mettendole,  poi, se non più usate, nel dimenticatoio.  Poi quest’estate, leggendo il bellissimo libro di Stefano Mancuso “Uomini che amano le piante” dove si racconta la vita di  botanici, genetisti, esploratori, agronomi, filosofi e letterati, da Malpighi a Darwin, da Mendel a Jean-Jacques Rousseau, da George Washington Carver a Vavilov appunto, accomunati da una vera passione per le piante che studiarono con competenza e tenacia, spesso in un mare di difficoltà, il cassetto della memoria si è aperto e mi sono improvvisamente ricordata di  lui: Nikolaj Ivanovič Vavilov,  uno dei padri nobili dell’agricoltura mondiale, un agronomo russo vissuto agli inizi del 900 che tra i primi intuì l’importanza della genetica vegetale, scienza allora agli albori, che applicò alla selezione di nuove varietà di frumento con l’intento visionario di trovare super varietà capaci di sfamare il popolo russo stremato dalla povertà e dalla fame. 
Nel libro di Mancuso il capitolo dedicato alla vita di  Vavilov è avvincente ma, allo stesso tempo, avvilente per come l'ideologia e il dogmatismo staliniano ebbero la meglio  sulla passione e l'impegno di un uomo che aveva dedicato la vita alla studio delle piante.
 
Nikolaj Ivanovič Vavilov, nasce a Mosca nel 1887 da una famiglia di mercanti; nel 1906 si iscrive all’Istituto di Agricoltura moscovita dove si distingue per impegno e grandi capacità laureandosi nel 1911. Negli anni successivi, effettua viaggi di studio all’estero dove conosce W. Bateson uno dei padri della genetica e di ritorno in patria mette a punto un dettagliato e grandioso programma di lavoro mirato ad applicare le nozioni acquisite alla selezione di nuove varietà di piante coltivate per migliorarne la produttività, avvalendosi anche delle esperienze condotte sul frumento da Nazareno Strampelli agronomo e genetista italiano. La Russia era in quegli anni un paese caratterizzato da una agricoltura molto arretrata sia da un punto di vista tecnologico che organizzativo. Le devastazioni avvenute nel corso della prima guerra mondiale rendevano urgente sopperire alle esigenze alimentari della popolazione e questo spinse il governo sovietico ad avviare un grandioso programma di trasformazione dell’agricoltura. Il compito di dirigere il lavoro fu affidato a Vavilov che fondò l’Accademia pansovietica di scienze agrarie Lenin (Vaschnil ) avviando, tra il 1920 e il 1930, un piano di esplorazione mondiale nel corso della quale, con oltre cento viaggi al suo attivo in 64 paesi, metterà insieme una enorme collezione costituita da più di 50.000 varietà di piante selvatiche e da 31.000 campioni di grano conservati in un enorme bunker costruito sotto l’Istituto, a San Pietroburgo. E’ in questi anni di frenetiche ricerche che Vavilov riesce a costituire nuove varietà di frumento che daranno alla Russia un importante contributo per l’aumento delle produzioni cerealicole, mettendo, altresì, a punto la teoria per cui è studiato sui libri di testo; nel corso dei suoi molteplici viaggi, Vavilov infatti intuisce e teorizza nel suo libro ‘ Origine delle piante coltivate’ (1927) che nel mondo le piante non erano state domesticate a caso ma ciò era avvenuto in particolari regioni diverse per ogni specie chiamate "centro di origine" dove la specie era presente con la massima variabilità genetica, individuando quello delle principali specie coltivate in piccole aree geografiche del mondo, specialmente nelle regioni montane dell'Asia e dell'Africa.
Tuttavia con la morte di Lenin, che appoggiava e finanziava il programma di Vavilov  e l’avvento di Stalin, il suo progetto di ricerca viene messo in discussione da alcuni studiosi sovietici come Lysenko che ne confutavano le teorie mendeliane mettendone in dubbio anche l’efficacia pratica. Il susseguirsi di anni di raccolti disastrosi crearono notevoli difficoltà a Vavilov che si ritrovò sempre più isolato ed inviso al regime che lo accusò di avere ritardato lo sviluppo della produzione agricola facendolo arrestare nel 1940 con l’accusa di spionaggio e cospirazione antisovietica. Vavilov morirà nel 1943 di fame e di stenti nel carcere staliniano di Saratov. Ma la sua passione aveva fatto scuola, nonostante la sua morte e il lungo assedio (dal settembre 1941 al gennaio 1944) alla città di San Pietroburgo (al tempo Leningrado), i suoi manoscritti, i documenti e soprattutto la sua grandiosa ed inestimabile raccolta di semi e di materiale vegetale rimase integra, tenuta gelosamente nascosta ai tedeschi da scienziati del suo gruppo di lavoro, in nove dei quali preferirono morire di fame piuttosto che intaccare la collezione.  Nel 1955 Vavilov fu riabilitato riconoscendo da parte governativa l’assoluta inconsistenza delle accuse a lui addebitate e successivamente gli venne dedicato l’Istituto che per tanti anni aveva diretto.
 
Ancora suggestionata dalla lettura del libro di Mancuso, mi sono sentita molto coinvolta   visitando, questa estate, il padiglione della Russia a Expo che è dedicato agli uomini che hanno contribuito allo sviluppo dell’agricoltura e alla sicurezza alimentare del paese; la prima stanza è intitolata  a Vavilov e all’istituto che ne porta il nome, che è oggi un centro mondiale per lo studio e la conservazione delle risorse vegetali composto da 323 mila varietà di semi che rappresentano più del 10% delle piante coltivate sul pianeta. Intere pareti espongo una parte dell’erbario e guardando i singoli campioni retroilluminati e le notazioni in calce ad ogni preparato io mi sono emozionata.


Infine,  leggendo il programma di incontri Piante e saperi: libri per il 2015 , curati da Mimma Pallavicini  per Murabilia mi rendo conto come Vavilov ha riempito la mia estate; venerdì 4 settembre, infatti, verrà presentata da Riccardo Franciolini della Rete semi rurali la prima traduzione italiana del libro di Vavilov:   L’Origine della piante coltivate I centri di diffusione della diversità agricola edito da Pentagora. Il libro l’ho già ordinato e non vi nascondo che mi sarebbe piaciuto molto assistere alla sua presentazione. 




martedì 18 agosto 2015

Stenocarpus sinuatus e le sue ruote di fuoco

Sono australiane alcune delle specie arboree (Casuarina, Araucaria bidwillii, Lagunaria patersonii, Grevillea robusta, Brachychiton nelle tre specie discolor, populneus ed acerifolius) più diffusamente utilizzate nelle regioni meridionali a clima mite per realizzare alberature stradali o come esemplari in parchi pubblici, in aree condominiali o nel verde privato perché specie climaticamente adattabili e dotate di una notevole resistenza al secco e perché hanno una particolare, discreta, esoticità che ne caratterizza il portamento e la fioritura.
Ma se il mercato australiano delle piante arbustive introduce con continuità novità commerciali sul mercato europeo, per le piante arboree sembrerebbe essere giunti ad un punto morto come se il multiforme continente australiano non disponesse di altre tipologie di alberi da offrire al mercato del verde ornamentale mediterraneo, fatta eccezione per i generi Acacia ed Eucaliptus che, per certi versi,  sono ancora in parte da  scoprire.
Ed invece qualche giorno fa, visitando i Vivai Torre, a Milazzo, mi sono imbattuta in un albero di origine australiana che non avevo mai visto prima e che faceva bella mostra di se in un angolo del giardino; si tratta di Stenocarpus sinuatus, un grande albero delle foreste pluviali della costa  orientale dell’Australia, dalla vegetazione sempreverde molto decorativa e dalla fioritura esplosiva come solo le Proteaceae sanno fare.
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Avrei inserito la specie nella casella mentale di una bella, potenziale, novità per i giardini mediterranei se non avessi avuto modo di vederne, nello stesso giorno, un secondo esemplare in tutt’altro luogo, vicino Taormina, in una recente sistemazione a verde eseguita dal vivaio PianteFaro.  Ora, se, come diceva Agatha Christie : “un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova” il terzo indizio,  che è  la prova che la specie non è nuova al clima mediterraneo, me l’ha fornito Giancarlo Torre mandandomi la foto di un grande esemplare di Stenocarpus sinuatus scattata a Milazzo nel giardino di una villa abbandonata. 

Ritengo, allora, che valga la pena conoscere meglio questo albero dalla fioritura assai particolare,  perché sono certa che presto lo ritroveremo come ospite abituale dei nostri giardini.

Caratteri della specie
Il genere Stenocarpus appartiene alla famiglia delle Proteaceae e comprende circa 30 specie di alberi ed arbusti distribuiti in Nuova Guinea, Nuova Caledonia e Australia; l’etimologia del nome generico deriva dal greco stenos e karpos, cioè dai frutti stretti, appiattiti, mentre l’attribuzione specifica di  'sinuatus'
riguarda le foglie che hanno il margine sinuoso, ondulato.
Stenocarpus sinuatus è un albero di media grandezza che nella terra d’origine raggiunge i quindici metri d’altezza ma con una crescita molto lenta; è specie sempreverde con foglie lucide, coriacee, di colore verde chiaro, rossastre sulla pagina inferiore, variabili nella forma: le giovani sono spesso profondamente lobate, lanceolate o oblunghe con margini interi ma ondulati; negli alberi adulti invece le foglie sono più piccole e meno lobate. L’aspetto più caratteristico della specie è la particolarissima fioritura che ha meritato all’albero l’appellativo anglosassone di Firewheel, 'ruota di fuoco'. 
Gli strani e brillanti fiori, privi di odore, riuniti in gruppi, sono in realtà infiorescenze a ombrella nelle quali i singoli fiori ermafroditi hanno i sepali saldati in forma irregolare  con  un tubo corallino aperto nella parte basale mentre all'apice assume forma globulare e ricurva,  di colore giallo verdino;  i fiori sono saldati in cima a peduncoli tubolari di colore rosso brillante che nascono tutti dallo stesso punto centrale e che, per il loro colore, dapprima aranciato e poi rosso scarlatto e per la disposizione circolare, sembrano i raggi di una ruota infuocata. I fiori esercitano, nelle regioni d'origine, un grande richiamo per gli uccelli. 
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I frutti sono follicoli deiscenti a barchetta, lunghi e molto sottili,  simili a quelli del Brachychiton e contengono numerosi semi piatti. 
Disegno di Margaret Preston
La specie è popolare in Australia tanto da essere ritratta in composizioni artistiche e, trattandosi di "ruote" è stata adottata come pianta mascotte del Rotary Club nel mondo. Nel clima Mediterraneo può trovare collocazione in giardino in pieno sole o in leggera ombra in aree non soggette a gelate, anche se la specie è in grado di tollerare situazioni occasionali di freddo (-2 °C) . Le basta un angolo abbandonato del giardino per crescere bene ma come  tutte le proteacee anche lo stenocarpus è molto sensibile al fosforo dimostrandolo con foglie gialle e clorotiche; sopporta bene le potature e cresce agevolmente anche in vaso .
 

domenica 9 agosto 2015

Expo Milano 2015 : è importante partire da Zero

Come milioni di altri visitatori anch’io, approfittando delle vacanze di fine luglio, ho fatto una scappata a Milano per annusare l’aria dell’Expo, per sentirne gli umori, per assaporare anche se parzialmente gli aromi del mondo.
Scartando i padiglioni più gettonati (Giappone, Brasile, Cina, Arabia Saudita, Belgio) dove le file di accesso superavano i tempi consentiti da una serrata tabella di marcia, ho percorso in su e in giù il Decumano, l’avenue su cui si affacciano le installazioni dei paesi partecipanti, alla ricerca del “tema”, di come cioè fosse stato affrontato e svolto dalle diverse nazionalità il filo conduttore dell’Expo milanese che fa capo al titolo “ Nutrire il pianeta, Energia per la vita".
 
L’ argomento è  stato lungamente dibattuto in questi mesi in  convegni,  concorsi  e contributi scientifici per confrontarsi  e riflettere a livello planetario su come sanare le contraddizioni del mondo dove esistono, al contempo, milioni di persone denutrite e sofferenti per la fame e altrettante che soffrono di disturbi derivanti da un eccessivo consumo di cibo, con tonnellate di derrate alimentari che vengono buttate al macero.
Motivi e spunti di riflessione che pensavo avrei visto declinati in 145 diversi, possibili modi, tanti quanti sono i paesi partecipanti all’Expo.
In realtà l’ Esposizione Universale di Milano è una kermesse assai divertente e coinvolgente per colori, musica, cucina, intrattenimento e per i diversi eventi che ogni giorno animano il Decumano con spunti più ludici e goderecci che prettamente culturali, prevalendo nella maggior parte dei padiglioni il folclore, l’attrazione turistica, il puro intrattenimento volto a conquistare le preferenze del grande pubblico che sembra, d’altra parte, molto apprezzare, soprattutto da un punto di vista alimentare.
Ma per chi, a Expo, avesse anche voglia di riflettere, c’è un luogo da non tralasciare, il Padiglione Zero, un padiglione tematico considerato la porta d’accesso all’Esposizione Universale che è stato ideato, progettato e realizzato da architetti e maestranze italiane per raccontare la storia dell’umanità attraverso il rapporto con il cibo. Siccome, in queste visite, si va sempre di fretta, ho passato il tempo a fotografare le didascalie esplicative delle diverse postazioni per poterle leggere a casa con comodo; il loro testo, quando riportato, è trascritto  in corsivo.
Il Padiglione ha una struttura in legno con tetti tondeggianti che sembrano dei trulli ma che rappresentano, in realtà,  un susseguirsi di dolci colline  con al centro uno slargo (Valle della civiltà) che ospita un piccolo anfiteatro all’aperto. All’interno delle diverse sale si snoda un percorso scenografico che, partendo dalla citazione di Plinio: Divinus halitus terrae" (il divino respiro della terra) trascritta  sulla facciata all’ingresso, racconta il cammino svolto dall’uomo nelle sue diversi fasi evolutive ed il suo rapporto con la madre terra e con il cibo.  
 
Il grande ingresso, immerso nella penombra, accoglie il "Teatro della Memoria", un enorme archivio ligneo realizzato da ebanisti italiani che è tutto un susseguirsi di cassettoni aperti e chiusi che custodiscono simbolicamente l’immenso bagaglio di informazioni ed esperienze accumulatesi nella storia dell’umanità ed un grande schermo, dicono il più grande del mondo, sul quale scorrono immagini di vita contadina.
E’ la stanza delle “Arti dell’uomo” dove in un angolo campeggia un enorme albero, alto più di venti metri, realizzato in acciaio e polistirolo rivestito da cortecce la cui grande chioma, sfondando il tetto, svetta sul padiglione; ci sono voluti quattro operai che hanno lavorato esclusivamente all’albero per un mese per attaccare le oltre 385.000 foglie che lo compongono con un effetto realistico veramente sorprendente. 
Nella stanza che segue tredici schermi trasparenti, molto colorati, pendono dal soffitto riproducendo frutti e vegetali scomposti a computer in base al loro colore, a simboleggiare la biodiversità vegetale.
…. le piante sono, infatti, alla base di tutte le catene alimentari e costituiscono la fonte primaria del sostentamento umano. Oltre l’80 per cento della nostra dieta è di origine vegetale e la superficie delle terre coltivate è di oltre 1,5 miliardi di ettari. Dodicimila anni fa gli uomini hanno cominciato a coltivare le piante e nel corso dei millenni sono state selezionate oltre 7000 specie vegetali per uso alimentare ma, ad oggi, solo 30 di esse coprono il 96% del fabbisogno nutrizionale globale. Dato l’esiguo numero di specie è di vitale importanza conservare la diversità al loro interno per tutelare la sicurezza alimentare…
Su un’intera parete della stessa stanza un puzzle di teche trasparenti raccoglie semi e frutti di oltre novecento specie provenienti da tutto il mondo. … Conoscere e proteggere la biodiversità, mediante l’uso sostenibile delle pratiche agricole, significa preservare il segreto della sua ordinata e imperitura armonia….
Dopo avere domesticato le piante l’uomo si circonda di animali  e quelli rappresentati sono realizzati a grandezza naturale e colorati di una resina bianca; un pallore un poco mortifero  per  raccontare la storia dell’allevamento come...  storia di un’alleanza.. L’animale nutre, scalda, sostenta, aiuta, entra a far parte dei ritmi della vita dell’uomo.
Uscendo fuori all’aperto, nell’Anfiteatro, c’è il tavolo “Pangea” realizzato  come omaggio all’unità dei popoli utilizzando un legno antichissimo e poi, a completare il percorso virtuoso dell’uomo, un omaggio alla terra e agli attrezzi adatti alla sua lavorazione.
 
Ma ci si avvicina alla Catastrofe; da questo punto in poi, infatti,  nel percorso evolutivo dell’uomo, tutto comincia a cambiare passando dalla società rurale a quella industriale ed il passaggio è  raccontato in un grande plastico che dalle piccole case di campagna arriva ai grandi grattacieli delle città urbanizzate.
…..La rivoluzione industriale ha avviato il processo di radicale trasformazione del rapporto tra uomo e ambiente rendendoci coscienti del nostro potere sulle forze naturali. Con l’avvento dell’industria mutano le strutture organizzative della produzione: nasce la concezione meccanizzata del lavoro, si diffonde l’idea di moltiplicazione e serialità del prodotto. L’enorme potenziale espresso dalle macchine invade anche la produzione agricola e l’allevamento, modifica le società: i sistemi di approvvigionamento, le professioni, le conformazioni urbane, le tradizioni consolidate nei millenni. E’ da quel momento che l’uomo perviene alla consapevolezza, prima graduale e ora ampiamente diffusa, del potere di trasformare ciò che lo circonda: nascono le grandi fabbriche, crescono le città. Si costruiscono imponenti infrastrutture, cambia radicalmente il sistema dei trasporti ferroviari e marittimi: muta il paesaggio in tutto il mondo  occidentale. E si arriva allo sfruttamento eccessivo e spesso irrazionale delle risorse, alla degenerazione speculativa dei mercati, al paradosso dello spreco.
 
Nel percorso evolutivo dell’uomo si arriva ai giorni nostri consapevoli della catastrofe e convinti di potere rimediare … Ci sono luoghi in cui l’uomo grazie a questi saperi, è riuscito a stabilire un equilibrio perfetto tra mondo naturale e produzione, ecologia ed economia, disegnando meravigliosi paesaggi di armonia. Antiche abilità artigianali e contadine adeguando le coltivazioni alla conformazione del terreno, hanno creato vere e proprie architetture, divenute peculiarità paesaggistica. Modelli agricoli efficienti che tutelano la biodiversità con un impatto minimo sull’ambiente, possono diventare ragione di sviluppo delle comunità locali. Sono questi esempi perfetti di un equilibrio tra tradizione e innovazione, rispetto dell’ambiente e sviluppo industriale, di uomo e natura.

E’ il momento delle stanze delle Buone Pratiche rappresentate in video e in fotografia; si tratta di 18 progetti sulla sicurezza alimentare selezionati da una Giuria Internazionale, nell’ambito del concorso Best Practices sulla Sicurezza Alimentare lanciato da Expo in collaborazione con il Programma Feeding Knowledge, che ha visto l’adesione di ben 749 progetti provenienti da tutto il mondo.
Sono progetti la cui applicazione potrà favorire il miglioramento della qualità della vita dando ad ognuno la possibilità di soddisfare le proprie esigenze alimentari quotidiane.

Per vivere il pianeta in armonia  occorre ricominciare da Zero, c’è molto da pensare e tanto da fare alla ricerca di un nuovo equilibrio.


martedì 4 agosto 2015

Il giuggiolo dal poggiolo

Basta poco e ti accorgi come tutto può cambiare; prendi un aereo che ti porta verso il nord ed in poco più di un’ora ti ritrovi in un ambiente completamente diverso dal tuo modo di fare, dove ogni cosa è un’esperienza nuova da inquadrare per capire un modo differente di vivere.
Catania-Mestre è la vacanza di quest’anno, ospite da amici per una settimana; sembrerà banale ma sono tante le cose che mi son sembrate strane a cominciare, come è ovvio, dal mondo vegetale dove distese di soia e mais si rincorrono tra i capannoni industriali e dove il verde ornamentale, a prima vista un poco piatto e convenzionale, è fatto di poche specie tra le quali non possono mancare lagerstroemia, lauroceraso e conifere.
Vogliamo parlare dei mezzi di locomozione? Tutti a Mestre usano la bicicletta ed il treno; la prima per girare i dintorni di casa, per fare la spesa o andare all’orto, lungo strade a loro dedicate, serene e alberate; è un modo estremamente rilassante di procedere, niente a che vedere con il caos dei nostri centri urbani assediati da migliaia di automobili , dove le bici sono considerate intruse, mezzi atti ad intralciare la circolazione veicolare.
Le stazioni poi brulicano di persone come i centri commerciali nei giorni dei saldi, sarà perché il treno lo prendono in tanti, i pendolari per andare a lavorare e gli studenti per studiare, gli altri per raggiungere città lontane che con il treno sono tutte a portata di mano, come ho potuto constatare andando in due ore e mezza da Mestre a Milano: una cosa inconcepibile per un siciliano.
A Mestre hanno un modo dolce di parlare anche se spesso li senti sacramentare e se nella foga del discorso gli scappa un “casso!” non ti sembra, detto da loro, un vero insulto. Tengono molto al modo di vestire (ma anche da noi c’è questa mania del “comparire”) e in molti si sentono serenamente integrati con una vera marea di lavoratori immigrati. Hanno le chiavi del cassonetto dei rifiuti, mangiano ottime insalate prodotte nell’orto e per spuntino, un tramezzino; bevono a tavola, anche d’estate, un litro di prosecco.
Detto questo, affacciandomi un giorno dal poggiolo (chiamano così quel luogo ingrato, caldo ed assolato che noi chiamiamo balcone) vedo relegato in un angolo di un giardino li vicino, un piccolo albero dal tronco contorto che porta frutti di forma cilindrica simili ad olive; è un giuggiolo, albero antico mai visto dalle mie parti e che scopro, invece, essere specie a coltivazione familiare molto frequente nel padovano e nel vicentino ma anche in Toscana; nel paese di Arquà Petrarca ci fanno addirittura una sagra le prime due domeniche di ottobre.
 La storia di questa pianta mi comincia ad intrigare e d’altra parte, si va fuori in vacanza anche per imparare, ed ecco le notizie che, in breve, ho potuto reperire:
Ziziphus jujuba, specie nota anche con il sinonimo di Ziziphus vulgaris, è un alberello spinoso di lento accrescimento, della famiglia delle Rhamnaceae, con foglie caduche, alterne e a margine seghettato. La specie è originaria della Cina del nord dove è frequentemente coltivata come pianta da frutto. Dall’Oriente fu introdotta in Siria dai romani , diffondendosi poi in tutto il Bacino del Mediterraneo in luoghi temperati dove è in grado di resistere a temperature di pochi gradi sotto lo zero anche se per tempi non troppo prolungati . Fiorisce in modo poco appariscente in giugno- luglio producendo poi in autunno drupe di forma ovale simili a grosse olive ma di colore rosso castano.
La polpa della giuggiola è di colore biancastro, dolce-acidula, carnosa ed ha un elevato contenuto in vitamina C; all’interno è presente un grosso nocciolo. I frutti hanno un sapore agretto, stuzzicante, appena raccolti e diventano più dolci e glutinosi quando si aggrinzano; le giuggiole si possono infatti mangiare fresche, candite o ammezzite, queste ultime, molto gustose sono dette ‘datteri cinesi’ ed hanno la stessa considerazione merceologica di datteri, fichi secchi ed uva passa.
La specie si moltiplica per seme o ancora meglio per polloni che crescono numerosi alla base della pianta e si possono facilmente estirpare.
Nella medicina popolare lo sciroppo di giuggiole è molto considerato come emolliente e sedativo degli stati infiammatori delle vie respiratorie. I contadini usavano conservare in casa una buona scorta di giuggiole infilzate a coroncina per l’inverno e quando una tosse stizzosa o un’infreddatura colpiva qualcuno in famiglia se ne faceva un salutare decotto. Ed il famoso brodo di giuggiole?
E’ un vino da meditazione, un succo liquoroso molto dolce che veniva servito a fine pasto, accompagnato da biscotti secchi o torte, tanto dolce e buono da essere diventato fin dal Seicento espressione di felicità, contentezza, goduria. Forti questi Veneti a tramandarne la tradizione.

 
 
 
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