giovedì 13 ottobre 2022

Basilio Busà e gli Shiitake dell’Etna

 
Basilio non è più un ragazzino ma degli adolescenti ha saputo mantenere quell'entusiasmo senza remore, quella voglia di scoprire, provare, sperimentare, quegli eclettici interessi che lo fanno essere contemporaneamente un bravo odontoiatra, un altrettanto bravo allevatore di capre girgentane, appassionato alle tecniche di caseificazione, ma anche uno sperimentatore in campo micologico e più recentemente un sensibile apicoltore.

Il filo conduttore della sua passione è sempre lo stesso sia che si tratti di capre, api o funghi: una passione per la biologia che lo porta a studiare per capire e poi interagire con il processo oggetto di attenzione, mantenendo tuttavia un atteggiamento curioso, da studioso piuttosto che da persona interessata a ricavarne reddito, puntando ad ottenere una produzione che per volumi si potrebbe definire di nicchia. Basilio, ad esempio, ha abbandonando l’allevamento delle sue 100 capre perché gli faceva troppo male perdere anche pochi capi, per malattia o morte, essendo animali con cui condivideva ogni attimo delle proprie giornate e nonostante ne abbia dismesso l’allevamento da anni, continua a frequentare corsi di caseificazione sulle Alpi perché, come dice lui “ ...E' una cosa che mi piace da morire”.

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E oggi ci sono anche le api, che sono la sua ultima passione, cui si accosta da amico, con un approccio gentile, raccogliendone il miele per non più del 20% di quanto prodotto da un alveare, per lasciare il resto alle api che, del miele, sono le legittime proprietarie e dovrebbero esserne, quindi, anche le principali consumatrici.

Basilio Busà, è tuttavia conosciuto in Italia ed all’estero per una sua particolare attività: i funghi coltivati, ma non i soliti pleutorus o prataioli che hanno oramai tecniche di produzione simil-industriale, ma i funghi orientali, i cosiddetti Shiitake, funghi terapeutici che nella filosofia alimentare del Sol Levante sono quelli che aiutano il sistema immunitario ad evitare di ammalarsi.

 E’ lo stesso Basilio che racconta come ha cominciato:
“Anni fa, ho preso una parte di casa mia e l’ho trasformata in un laboratorio di micologia iniziando a clonare specie di funghi saprofite ciò specie che crescono in natura su un substrato morto; ho cominciat
o con specie semplici per arrivare alle specie più esigenti come ad esempio i funghi bioluminescenti che come le lucciole producono luce durante la notte; siamo stati solo in due al mondo a riuscire a produrre in cattività Omphalotus nidiformis un fungo australiano, tossico ma assai particolare per la luminescenza verdastra che produce di notte, tanto da essere chiamato Ghost Mushroom (fungo fantasma).

Mi sono poi interessato alla categoria cosiddetta dei funghi orientali sui quali alcune ricerche hanno rilevato la presenza di principi terapeutici in grado di migliorare le difese immunitarie dell’organismo umano. Alcune specie come la Reishi non sono commestibili perché di cattivo sapore o perché troppo legnose mentre la specie chiamata Shiitake (Lentinus edodes) oltre ad essere specie terapeutica per un alto contenuto di una sostanza chiamata lentinano, è anche commestibile e per questo molto usata nella cucina giapponese come componente base di zuppe e minestre ed adatta anche al gusto europeo come fungo da trifolare fresco o seccato. Ho cominciato così a produrre Shiitake con tecnica classica, utilizzando paglia come substrato di coltivazione così come facevano altre quattro o cinque aziende in Italia. Non ero contento però, perché volevo ottenere un prodotto di qualità superiore; studio bene la biologia del fungo che in oriente cresce in natura su legno morto di specie vegetali molto simili a quercia e castagno e decido di provarne la coltivazione sui residui della lavorazione del legno dei tanti castagneti etnei presenti nella mia zona. Dopo tre anni di prove comincio ad ottenere dei buoni risultati mettendo a punto un protocollo di coltivazione; il fungo che cresce su trucioli di castagno, rispetto a quello coltivato sulla paglia, richiede più tempo per strutturarsi (circa tre mesi) ma una volta maturo è molto più gustoso e profumato".

Dove si svolge e come avviene la produzione?
Nella mia proprietà che ha sede a Trecastagni, paese all’interno del Parco dell’Etna, c’è una piccola cava dismessa dove un tempo si estraeva il materiale vulcanico utilizzato nella costruzione delle masserie dei dintorni; questa piccola grotta è stata poi utilizzata anche come stalla e ricovero.


Da un punto di vista termico presenta caratteristiche molto adatte alla coltivazione del fungo Shiitake perché la temperatura in grotta, che è circondata da una zona boscata,  non ha picchi di alta o bassa temperatura durante tutto l’anno.
Lo Shiitake è un fungo particolarmente complicato da riprodurre perché dopo l’inseminazione, che avviene in laboratorio in condizioni estremamente controllate, il micelio che si va formando all’interno della balletta di trucioli può rimanere in forma vegetativa tecnicamente ad oltranza, sino a quando non riceve un input di vario genere o sotto forma di shock termico (24 ore in frigorifero o viceversa con un rialzo della temperatura) o anche sotto forma di un intervento fisico meccanico colpendo la balletta per stimolare il micelio a produrre corpi fruttiferi. 

Una volta avviata la produzione facciamo tre cicli in cava e poi portiamo le balle all’esterno per un ultimo strascico di produzione. Per quanto riguarda la qualità del prodotto abbiamo avuto ottimi risultati: lo Shiitake produce corpi fruttiferi diversi nelle diverse stagioni: in estate si sviluppa la variante detta Koshin caratterizzata da crescita veloce, cappello sottile di colore nocciola chiaro e di sapore meno accentuato.

Le due varianti del fungo 

In autunno-inverno, invece, si ottiene la variante più pregiata chiamata Donko, che ha tronco del fungo ben strutturato, buona dimensione, capello scuro con pelucchi e puntini bianchi. Nella mia situazione aziendale non faccio grandi volumi ma ho il vantaggio di avere una produzione costante durante tutto l’anno producendo circa trenta chili di prodotto fresco a settimana che vendiamo a ristoranti in zona ed in alcuni punti vendita al Nord.
Hai altri progetti?
"Se sul piano pr
oduttivo non ho più tanto da scoprire, considerando che io senza sperimentare mi annoio, mi sono allora posto il problema di trovare un possibile riutilizzo per i panetti di trucioli residuati dal ciclo di produzione dei funghi. Mentre inizialmente il truciolo è semplice farina di legna compattata, in seguito alla crescita al suo interno del micelio fungino essa assume una struttura propria, leggera ma resistente. 

Balletta esausta prima e dopo essere stata rimodellata

Che farne? Ne ho sagomato un mattone che ho provato ad utilizzare per fare, ad esempio, alveari i cui primi prototipi sembrano essere molto apprezzati dalle api perché spessi e coibenti e fatti di un materiale quanto più simile al legno dei vecchi alberi colonizzati da funghi dove le api andrebbero spontaneamente a cercare casa.

Ultimamente, poi, stiamo facendo uno studio di fattibilità, insieme all’Università di Catania, sull’utilizzo dello scarto della lavorazione dei funghi per fare un bio polistirolo isolante per l’edilizia".
Basilio è un entusiasta e trasmette entusiasmo a chiunque lo ascolti suscitando immediata empatia verso i suoi funghi orientali o le sue api golose. Dove lo porterà la sua continua voglia di sper
imentare? Oltre a pensare ai funghi, alle api e a tutto il resto Basilio studia oggi come creare unità abitative energeticamente autosufficienti avendo già provveduto a realizzarne prototipi all’interno della sua azienda; un posto essenziale dove soggiornare circondati dal verde dei suoi castagni, dal ronzare delle sue api e dal profumo dei suoi funghi. Dopo averlo conosciuto in occasione di una "Esperienza organizzata nell'ambito della Via dei Tesori di Catania, c’è solo da aspettare per vedere su quali svariati, altri, campi di interesse si dirigeranno le sue ricerche negli  anni a venire.

 

lunedì 26 settembre 2022

Clark Lawrence, le tante virtù di un Mezzo Giardiniere

 
Questo fine settimana presso i Vivai Valverde da Ester Cappadonna e Francesco Borgese si è svolta una nuova edizione, seppur in versione mignon, della manifestazione Ciuri Ciuri che riunisce nella casa-vivaio di Ester e Francesco alcuni vivaisti amici, con un programma che prevede attività di divulgazione giardinicola, laboratori e iniziative dedicate ai bambini, per condividere, finalmente insieme, la passione per il verde ornamentale, dopo il lungo letargo imposto dal Covid.
Nell’ambito della manifestazione è stato presentato il libro “Mezzo Giardiniere” scritto per Officina Naturalis da Clark A. Lawrence, una persona simpatica, sensibile, colta, ironica, che da autodidatta, forte di un innato senso del bello, ha imparato nella vita a fare tante cose: organizzatore di eventi letterari ed artistici, progettista del verde, arredatore di interni, giornalista-scrittore, cuoco, bibliofilo.

Clark Lawrence - 2019

Clark che è americano d’origine, vive in Italia dal 1995, anno in cui vi è arrivato per costituirvi un ‘Associazione Culturale no-profit chiamata Reading Retreats in Rural Italy, che per gli italiani è uno stridore impronunciabile di parole ma il cui significato sta ad indicare un’iniziativa rivolta ad un pubblico, soprattutto internazionale, che desidera soggiornare nella campagna italiana per leggere, fare arte, musica e letteratura. Il giardinaggio inizialmente non è contemplato tra le tante attività proposte dall’associazione ma, Clark a tal proposito dice:” Il giardino e le piante sono per me come lo spago usato per rilegare le pagine del libro della mia vita”.


Una vita irrequieta quella di Clark, che lo porta a fare tante cose, viaggiando in gioventù per tutto il Mediterraneo ispirato dalla passione per l’arte dell’Antica Grecia. Laureato in Ecologia umana in America, ha cambiato da giovane tanti lavori: da cuoco in un chiosco di astice cotto al momento, a lavorante in un albergo ed in una pizzeria, tirocinante in un Museo d’Arte americano come archivista, professore d’inglese, cambiando di continuo paese e luogo fino all’arrivo in Italia, prima a Napoli poi in Emilia Romagna alla ricerca di un posto dove mettere radici e concretizzare l’idea, maturata nel tempo, di coltivare e condividere la passione per i libri e per l’arte in un qualche luogo iconico della campagna italiana. Per raggiungere lo scopo Clark, che è sempre circondato da figure femminili amiche che lo aiutano a dipanare la sua incasinata vita, si mette alla ricerca di locali in affitto in vecchi casali, ville dirute o manieri in disarmo dove proporsi, in cambio di un canone contenuto, come inquilino tuttofare. Pochi confort, molto da riparare, pochi soldi, tanto da imparare e così negli anni l’Associazione trova sede prima a Palazzo Montefano a Vedrana di Budrio, poi presso il Castello di Galeazza Pepoli a Crevaldore vicino Bologna; dopo i terremoti del 2012 che butteranno giù il castello l’Associazione si trasferisce per un periodo transitorio a Corte Eremo nei seminterrati di una villa del 700 e per ultimo a Borgo Virgilio vicino Mantova in una vecchia stazione di pompaggio dell’acqua chiamata “Macchina Fissa” perché ospitava a metà del 900, il locale pompe adibito a controllare il ciclo delle acque in arrivo ed in uscita dal Mincio.
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I proprietari condividono il progetto di Clark e gli mettono a disposizione questa casa rurale di 20 stanze, tante scale e soppalchi , ancora in parte da ristrutturare, che nel tempo diventa un luogo accogliente per gli ospiti che dispongono di camere magnificamente arredate e di grandi spazi dove leggere in relax o seguire eventi culturali, consultare una grande biblioteca con oltre 6000 testi, disporre di tre pianoforti e diverse installazione artistiche. 
Si può ben dire oggi che l’idea di Clark ha avuto successo e sono tanti gli artisti, gli studenti e gli appassionati di arte, cultura, musica e giardinaggio provenienti da tutto il mondo che hanno soggiornato da lui.
Ma il giardinaggio? Come è iniziata la passione di Clark per il giardino lo racconta lui stesso: "Il libro è come un mosaico della mia vita che ripercorre eventi della mia infanzia, che parla degli amici, dei miei animali (capre e galli giapponesi), e racconta le piante che amo e quelle con cui litigo, ma nell’insieme non si può dire che sia un libro di giardinaggio, direi piuttosto un libro di memorie. Non ho lavorato in un giardino se non dopo i trent’anni. E non era una scelta ma una necessità. Ho cominciato perché dovevo liberare gli spazi esterni del castello dove vivevo, prima di poterci abitare. Il giardino, il cui impianto risaliva alla metà dell’800, era diventato una jungla intricata con muri di lauroceraso che coprivano alla vista una fontana centrale. Fare giardinaggio per me ha dunque significato, all’inizio,  imparare ad usare la motosega per pulire e liberare lo spazio esterno, buttare giù, ad esempio, il glicine che stava scardinando il tetto. I primi anni sono stati solo sottrazione. Quando ho finito di ripulire non c’era più niente, non un albero né un fiore, ho cominciato allora a riempire gli spazi operando però senza un criterio; sono partito da lavanda e piante a fiori bianchi e per spendere meno ho cercato di produrre da me le piantine per le bordure ed ho cominciato così a propagare e seminare.

Di notte studiavo cosa fare e di giorno ero in giardino a lavorare. Ho scoperto che ci sono piante facilissime come l’ipomea che ne stacchi un pezzo, la metti in acqua a radicare ed hai subito una nuova pianta e piante ostinate come helleborus e lilium che da seme stanno anni prima di germinare. Così a poco a poco nei luoghi dove ho abitato ho fatto giardini, in genere a bassa manutenzione, per creare un ambiente tranquillo per me ed i miei ospiti. Ecco perché non mi sento un vero giardiniere  ma un "Mezzo Giardiniere" anche se del giardinaggio mi piace tutto e soprattutto il duro lavoro che ci sta dietro".
Anche se Clark parla di se con ironia e modestia, le sue realizzazioni sia come arredatore di interni che come giardiniere sono pervase da atmosfere uniche (incasinate dice lui), che lo rappresentano e che sono assai apprezzate. Il suo giardino nel Castello di Galeazza a Crevalcore (Bologna) ad esempio, è stato recensito su riviste di settore e raccontato in programmi tv e quello di Macchina fissa è seguito nei suoi sviluppi da un Blog dedicato. Clark sta scrivendo un altro libro illustrato in collaborazione con un artista scozzese che ha dipinto  una raccolta di specie vegetali, scelte  secondo la progressione delle lettere dell’alfabeto, lasciandone a  Clark  il  racconto della sua personale esperienza di coltivazione; si comincerà  dalla A di Aquilegia.

Questa idea di leggere in relax in un luogo ameno non è affatto male, peccato che dovrò aspettare fino alla nuova estate per avere tempo di poterlo fare. Il libro di Clark,  "Mezzo Giardiniere" è  comunque da leggere in ogni luogo ed in ogni stagione.




mercoledì 31 agosto 2022

Aleurites moluccanus, l'albero delle noci-candela

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Ma con tutto il ben di Dio di alberi ornamentali che nel clima siciliano, oramai diventato simil tropicale, possiamo coltivare, non capisco perché il massimo dell’esotico che riusciamo ad immaginare per i nostri giardini sono ceiba, grevillea o brachychiton.

Ed invece bisogna osare, essere curiosi e sperimentare perché quello che oggi per noi è usuale non lo era, ad esempio, nel 1874 quando dal Sud America fu introdotta in Italia la Ceiba speciosa o nel 1910  il Brachychiton discolor. Se si vuole trovare qualcosa di nuovo ed originale, l’ho detto tante volte, bisogna andare al vivaio di Natale Torre, a Milazzo dove le piante non si vedono in catalogo ma nel loro habitus naturale, coltivate da anni nel suo giardino.

Un albero, ad esempio, che nel futuro a venire potrebbe diventare specie ornamentale abituale per nostri giardini è Aleurites moluccanus, un’ entità botanica dalle caratteristiche davvero particolari. La specie, descritta per la prima volta con il nome di Jatropha moluccana da Linneo nel suo Species plantarum (1753), ed attribuita alla famiglia delle Euphorbiaceae, è un bell’albero sempreverde a crescita rapida, alto intorno ai 20 metri, dalla chioma frondosa ed arrotondata; la specie è originaria del sud-est asiatico ma si è diffusa nelle isole del Pacifico già migliaia di anni fa ad opera degli aborigeni. In natura cresce nelle foreste pluviali tropicali dal livello del mare sino a 800 metri di quota ed è oggi diffusamente coltivata, anche a scopo ornamentale, nelle aree subtropicali; alle isole Hawaii è l’albero nazionale conosciuto con il nome comune di kukui.

Di un albero da giardino, in genere, se ne apprezza il fogliame e quello dell’aleurites è molto particolare; la pianta infatti ha un notevole dimorfismo nella produzione delle foglie, lungamente picciolate, che da giovani, sono di colore verde chiaro, semplici e di forma ovale ma crescendo possono assumere una forma a cuore o presentare tre, cinque, o sette lobi con dimensioni delle foglie che arrivano fino a venti centimetri di lunghezza.

Anche il colore cambia perché le foglie giovani che vengono prodotte all’esterno della chioma, nelle parti esposte al sole, si ricoprono di peli stellati di colore crema o ruggine per proteggersi dalla forte intensità luminosa, assumendo un aspetto argentato (il termine Aleurites vuol dire infatti, dal greco antico: farina, come se le foglie ne fossero spolverate). 
I fiori, piccoli, di color crema sia maschili che femminili sono portati in infiorescenze coniche, dal profumo mielato, lunghe circa 15 centimetri. 
E’ il frutto, però, la parte più caratteristica dell’albero; si tratta di una grossa drupa grande quanto una palla da biliardo, formata da due lobi posti all’interno di un guscio screziato; ogni lobo contiene un nocciolo morbido ed oleoso.
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Da questi semi, detti comunemente “noci” si ricava un olio infiammabile (i semi ne contengono percentuali superiori al 85%) da cui il nome attribuito alla pianta di “noce -candela” o candlenut.
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I semi, nella tradizione, venivano, infatti, direttamene bruciati per fornire luce, inserendoli in un bastoncino appuntito a formare una torcia, oppure, l’olio estratto per spremitura, non particolarmente buono per uso alimentare, veniva usato per le lampade o come combustibile, lubrificante, componente di vernici e saponi.
I frutti crudi sono lievemente tossici ma possono essere consumati cotti o tostati e l’olio trova impiego, in farmacopea, come emolliente e lenitivo della pelle. Tra gli usi più particolari di queste noci da parte delle antiche popolazioni polinesiane, vi era un impiego attinente l’arte dei tatuaggi, molto diffusi in quelle isole per indicare, nelle persone che se ne fregiavano, coraggio (pratica molto dolorosa), status sociale, appartenenza ad un’isola o a un gruppo familiare.
Per ottenere l’inchiostro dei tatuaggi si bruciavano noci di aleurites seccate al sole e sulla fiamma si teneva una conchiglia o una pietra piatta per raccogliere la sottile fuliggine che si formava che veniva poi miscelata con acqua di cocco. I primi esploratori inglesi verso la fine del 1700 osservando la diffusione dei tatuaggi sulla popolazione locale ne adottarono l’uso che divenne presto una moda tra i marinai inglesi.
Aleurites moluccanus  è dunque un albero che ha  tutte le carte in regola per acclimatarsi lungo le coste della nostra isola e prendendo esempio dall’arte dei tattoo la cui diffusione è oramai  diventata capillare, abbiamo a ben sperare che anche l'aleurites,  prima o poi, riesca a dilagare.
Bibliografia:  J. Drori, Il giro del mondo in 80 piante, L’Ippocampo, 2021, Milano.

venerdì 26 agosto 2022

Un giardino inusuale in un cortile parrocchiale

 

Quella che sto per raccontare potrebbe sembrare una storia parafrasata dalla canzone di Paoli ..”Eravamo quattro amici al bar che volevano cambiare il mondo” ma, a parte per il numero che è uguale (anche gli amici della mia storia sono quattro: Francesco, Giuseppe, Giulio e Carlo, a cui va aggiunto, però, un quinto componente definito: “aggregato”), il luogo del racconto non è un bar dove discutere di cosa fare della propria vita, ma il cortile di una chiesa di un quartiere periferico della città di Siracusa, dove i miei protagonisti, amici di rastrello di vecchia data, hanno cominciato ad incontrarsi, nei ritagli di tempo, per parlare di piante con l’intento dichiarato, ab origine, di provare a rivoluzionare il modo di fare verde pubblico e privato in città, contrapponendo all'idea del giardino omologato, fatto di thuje, chamaecyparis e i cedri del libano che, negli anni dei loro primi incontri, imperversava, l’intuizione dettata dalla passione per l’esotico che il verde da noi potesse essere espressione dei colori e dei profumi dei Tropici.

Il gruppo,  composto oggi da amici di età compresa tra i 75 e gli 80 anni  cominciò ad incontrarsi trent'anni fa, nel tempo libero dal lavoro, nel vivaio di uno di loro, una delle poche aziende di piante ornamentali presenti a Siracusa in quegli anni. Qualche tempo dopo, però,  Giuseppe, frequentando la parrocchia del suo quartiere, si rese conto di come fosse poco attrezzata ed accogliente per i fedeli. “ Non c’erano neanche delle panche all’esterno dove le signore potessero sedersi a riposare. Allora per rimediare, con l’aiuto di un amico ferramenta, cominciai a realizzare delle sedute e per rendere gradevole l’ingresso della chiesa creai due grandi aiuole dedicate alle piante succulente (Echinocatus grusonii e cereus,) e a piante verdi come yucca, dracena, cycas, strelitzia, dasylirion, chamaerops. 
Eravamo molto coinvolti in questo progetto e presi dall’entusiasmo realizzammo anche una piccola serra per il ricovero delle specie più delicate. Ma il quartiere è difficile e molte delle piante che mettevamo sparivano. Pensai allora di spostare la nostra attività nel cortile interno della chiesa, più riparato, dove con gli amici del gruppo e con l’appoggio del Parroco che finanziò l’acquisto delle prime piante, cominciò a prendere forma un giardino". 
Ogni componente del gruppo ha contribuito alla sua realizzazione fornendo piante, competenza  e forza lavoro. Carlo, il vivaista, ad esempio,  ebbe all’inizio un ruolo importante per il reperimento delle prime piante succulente e di alcune palme; Francesco, poi,   un super esperto di plumerie, con all’attivo oltre venti nuove varietà ottenute da seme e con un’abilità tecnica che gli consente di ottenere un riuscita pressoché totale degli innesti e della radicazione delle talee di questa difficile specie,  ha portato in dote esemplari di plumeria mettendoli a dimora in piena terra.
Una, la più spettacolare, è proprio all’ingresso del giardino ed è un esemplare di Plumeria obtusa di dieci anni d’ età, dalla chioma rotondeggiante ed una fioritura eccellente per abbondanza, dimensione e profumo dei fiori. Questa pianta è figlia del primo esemplare di Plumeria obtusa arrivato a Siracusa negli anni trenta del secolo scorso tramite due fratelli di ritorno da un viaggio in Etiopia. Da quel primo esemplare molte furono le talee radicate vendute al mercato e oggi ne rimangono ancora poche piante all’interno di alcuni giardini privati.
Accanto alla plumeria,  in un duetto di profumo stordente, c'è un grande esemplare di Murraja exotica i cui fiori, all’aroma di zagara, emanano scie di profumo che raggiungono gli angoli più remoti del giardino.
Sotto la plumeria, in ombra, un arbusto dal colore delicato, pennellato di rosa: è una breynia (Breynia disticha), specie proveniente dall’Oceania, a foglie dapprima rosate che invecchiando diventano verde chiaro e bianche. 
Oltrepassata la soglia del giardino grandi aiuole centrali e periferiche accolgono l’esotico (Tecoma stans, carissa, plumerie, euphorbie, raphiolepis; tra le palme cocos e caryota; tra le piccole da fiore: ruellia in forma nana) ed il mediterraneo (melograni, aromatiche, asparagus, Phyla nodifera come tappezzante) che convivono in buona armonia. 
Il lavoro per mantenere il giardino in efficienza è tanto e l’età si fa sentire; Giuseppe, che è il più assiduo ed anche il più anziano (gli hanno anche regalato un cartello con la dedica) si lamenta talvolta con il parroco per la stanchezza, chiedendo aiuto ai ragazzi della comunità che gravita intorno alla parrocchia per innaffiare o ripulire;  ma puntualmente, al momento in cui l’aiuto è trovato viene a malincuore rifiutato perché :  “Un appassionato non può delegare”. A chi lasciare in futuro la cura del giardino? Nonostante il grande via vai di giovani che frequentano la parrocchia  non si trovano ragazzi interessati a passare il tempo coltivando piante. Ed allora non resta  che continuare, cesoie in mano, a progettare, realizzare, discutere con gli amici di nuove piante e di angoli da abbellire senza pensare a quello che succederà domani,  un pò come nella canzone....
Eravamo quattro amici al bar
Che volevano cambiare il mondo....


giovedì 30 giugno 2022

Case del Biviere, un giardino di pescatori e principi

Campagna assolata, profumo di zagara, campi di grano appena raccolto, strada provinciale bordata di pini con un fondo stradale a groviera e piccole discariche diffuse ai suoi  bordi, resti fatiscenti di un vecchio villaggio rurale: è questo il paesaggio che si attraversa uscendo dal paese di Lentini, in provincia di Catania, prima di fermare il passo davanti un imperturbabile cancello che protegge, da quanto c’è intorno, un giardino che ha tanto da raccontare.

Il Giardino Biviere prende il nome dall’antico lago Biviere di Lentini, una depressione naturale compresa tra la Piana di Catania ed i monti Iblei che ospitava uno dei più importanti laghi naturali della Sicilia orientale con i suoi oltre mille chilometri di estensione e 4-5 metri di profondità. Un paradiso lacustre che offriva rifugio a molti uccelli acquatici attirati dalla presenza di abbondante fauna ittica composta da carpe, tinche, lucci ed anguille. Un luogo antico, sede fin dai tempi dei popoli Sicani, del mito di Ercole re dei Fenici che per ingraziarsi Cerere, dea delle messi, con il suo mantello fece sgorgare le acque del lago; sono gli arabi, tuttavia, i veri maestri nell’uso agricolo di questo bacino naturale usato come un’enorme peschiera (dal latino vivarium, poi in arabo veveré , trasposto poi in biviere ) creando tunnel e opere murarie in tufo per facilitare la raccolta e la lavorazione del pescato.  

Ma la sorte del lago è segnata quando, a partire dalla fine dell’Ottocento, a causa del diffondersi della malaria tra le popolazioni che abitavano il lago ed i dintorni, si fa largo l’idea di prosciugarne le acque con lavori di bonifica che, iniziati intorno alla metà degli anni 20 del secolo scorso, si protrarranno per oltre trent’anni, lasciando all’asciutto le barche ormeggiate agli antichi moli in pietra, inattivi i magazzini di pesatura e lavorazione del pesce e senza un perché l’antica cappella del 1300 dedicata a Sant’ Andrea, patrono dei pescatori.
Come questa terra prosciugata e nuda arrivi a diventare un giardino, la cui fama ha richiamato in questo angolo di Sicilia teste coronate e tantissimi appassionati, si spiega con la storia dei suoi ultimi proprietari: il principe Scipione Borghese e sua moglie Maria Carla Sanjust di Teulada. Il principe aveva acquisito la proprietà del Biviere da parte di madre, la principessa Sofia Lanza Branciforte di Trabia e verso la fine degli anni 60 decide di avviarvi una grande trasformazione agricola per sfruttare la indubbia fertilità del suolo lacustre; vengono impiantati oltre 100 ettari di agrumeto delle tradizionali varietà siciliane a polpa pigmentata (tarocco, moro e sanguinello), mentre la restante parte della proprietà viene destinata alla produzione del grano; si realizzano strade, impianti di irrigazione, opere idrauliche, corpi aziendali e tutto quello che serve per avviare un’attività di produzione; ma dirigere i lavori di una grande azienda da Palermo non era cosa possibile e così in famiglia si arriva all’inevitabile decisione di trasferirsi a Lentini.
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La principessa, Miki, così la chiamano in famiglia, dedica la sua attenzione a rendere vivibile il grande terreno di oltre due ettari che fa da contorno ai caseggiati oramai ristrutturati, immaginando un giardino che sia gradevole e renda l’intorno della casa fruibile in ogni stagione e, non avendo particolari conoscenze botaniche, comincia ad impiantare tutte le specie che di volta in volta il suo senso estetico le suggeriva di tentare.
Zone d’ombra cominciano a formarsi utilizzando specie a crescita rapida come bagolaro, ficus, phytolacca, alloro, araucarie, pini, platani orientali e, tra gli alberi da fiore: jacaranda, cercis, brachychiton, ceiba, ma sono anche tantissime le palme che cominciano a svettare in ogni angolo del giardino insieme a specie esotiche resistenti al caldo e alla siccità come agavi, yucche, aloe, cycas, dasylirion, xantorrea.
Le bouganville di ogni varietà e le rose costellano con macchie di colore il giardino ed il profumo è dato da gelsomini e da specie esotiche come Carissa grandiflora e Parkinsonia aculeata.
Il giardino sta cominciando a prendere forma quando alla principessa, che gira instancabile per Orti Botanici e vivai, scoppia la passione per le succulente che in tantissime specie, comprate o scambiate o, come fan tutti con le talee, talvolta trafugate, trovano ideale sistemazione tra le fessure antiche dei resti dei moli di attracco delle barche del lago, che attraversano in senso longitudinale parte del giardino. Si formano così aiuole fuori terra dove le forme ed i colori dell’esotico si mescolano ai capperi che spontanei spuntano da ogni dove.

Il giardino acquista in pochi anni una sua particolare fisionomia di giardino mediterraneo dal carattere esotico e così nell’estate del 1988 arriva la richiesta di una visita davvero speciale. E’ la Regina Madre d’Inghilterra, moglie di Giorgio VI, da sempre appassionata di giardini, che vorrebbe visitare il Biviere in occasione di una sua visita in Sicilia. La visita fu un vero successo e da allora il giardino è aperto ai tanti visitatori che lasciano traccia del loro passaggio su di un corposo libro dei ricordi.  

Tanti anni sono passati dalla mia prima visita al Biviere; ero da poco laureata in agraria e seguivo il mio capo, il Dottore Vito Sardo, agronomo che curava la progettazione dell’impianto irriguo dell’ agrumeto. Di quel tempo ho un ricordo speciale dei principi e del loro giardino nel quale ho imparato a riconoscere generi e specie delle tante piante esotiche che è possibile acclimatare nel nostro ambiente di coltivazione. Ma il ricordo che più mi rimane impresso è quello di quattro grandi alberi di pompelmo, coltivati in vasi interrati  sulla terrazza a ridosso delle porte finestre della casa; il visitatore accolto dal profumo di zagara in primavera  e dal giallo dei grandi frutti in autunno capiva subito di trovarsi in Sicilia, in un luogo privilegiato per la produzione degli agrumi.
Ho rivisto il giardino in questi giorni in occasione di una manifestazione del verde e vi ho ritrovato l’antico fascino di un tempo anche se negli anni molte cose sono cambiate: il principe Scipione non c’è più, la principessa Miki abita ancora al Biviere insieme al figlio che cura la gestione dell’azienda e alla nuora Virginia che si è presa carico delle visite e della cura del giardino. Il Biviere è sempre molto bello anche se alcune piante non ci sono più come i pompelmi sostituiti da più comuni limoni; la varietà di piante succulente che caratterizzava la collezione si è un poco diradata e la vasta estensione a prato appare oggi leggermente anacronistica. Gli esemplari arborei hanno raggiunto in trent’anni un aspetto maturo come il grande ficus dietro il cancello di ingresso o il bagolaro che fa ombra alla chiesetta. 
Il tutto merita una visita . La storia del giardino si può rivivere leggendo il libro scritto da Miki Borghese qualche anno fa dal titolo “Case del Biviere” .
A margine mi preme dire che a distanza di soli vent’anni dall’avvenuta bonifica, per soddisfare le esigenze irrigue dell’intero comprensorio agrumicolo, negli anni 70 è stato costruito, in parte dell’alveo del vecchio lago, un bacino artificiale che è più piccolo del lago originario e che al momento manca ancora del completamento delle condotte di distribuzione dell'acqua agli agrumeti. La fauna acquatica, però è ritornata. 
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