Alle origini dello zucchero
A guardare
questi pezzi di canna che ho tra le mani, acquistati alla Fiera del Bio da un
produttore di fruttiferi tropicali, non mi posso assolutamente capacitare delle
enormi conseguenze economiche, alimentari,
di costume ed anche ambientali che questa canna, dall’aspetto insignificante,
ha potuto determinare nella vita degli uomini.
Parlo della canna da zucchero o
Saccharum officinarum, specie importata
dagli arabi, dalle lontane Indie in Sicilia, durante la loro dominazione, che ha
segnato, in modo ineluttabile, il
destino di obesità del mondo occidentale e che è responsabile dei chili in più accumulati
per Natale.
Saccharum officinarum è botanicamente una graminacea di grande taglia con culmi che possono raggiungere i 3-4 metri d’altezza. Ha radici rizomatose da cui si diparte un fusto sul quale si inseriscono foglie guainate. I culmi, divisi in nodi ed internodi, hanno forma ovale e contengono un tessuto parenchimatico spugnoso impegnato di una linfa zuccherina; in corrispondenza dei nodi sono localizzate le gemme dalle quali prendono origine i culmi primari da quali, a loro volta, si formeranno culmi secondari. Le foglie sono alterne e sono composte da un lembo e da una guaina; le infiorescenze sono pannocchie ramificate.
La Canna da zucchero è stata importata dalle Indie sulle coste orientali del Mediterraneo dagli arabi che ne conoscevano e diffusero, soprattutto in Sicilia, la tecnica di estrazione. A quei tempi lo zucchero di canna era considerato un vero esotismo e le piccole quantità di cristalli ottenute attraverso spremitura dei culmi venivano vendute nelle farmacie, utilizzate per edulcorare il gusto terribile delle medicine dell’epoca. Allora il prodotto era chiamato “cannamele” perché era dolce come il miele ed estratto da una canna, una rarità di origine vegetale la cui estrazione era molto costosa rispetto all’ economico miele di api che si trovava facilmente nei boschi. Dal 1300 e per circa duecento anni in Sicilia la coltivazione della canna da zucchero diventa un’importante coltura da reddito grazie alle forti richieste dei mercanti genovesi e veneziani che ne commercializzavano lo zucchero per la produzione del marzapane.
La coltivazione della canna si diffonde intorno a Palermo, nel trapanese e sulla costa ionica etnea in aree prossime al mare dove il clima è mite, con ampia disponibilità d’acqua, dove ci sia abbondanza di concime animale e di manodopera a basso costo. Praticamente le stesse condizioni climatiche dove in seguito si insedieranno gli agrumi. La lavorazione della canna da zucchero richiedeva inoltre la realizzazione, in prossimità delle aree di produzione, di veri e propri stabilimenti di produzione chiamati trappeti di cannamele, un toponimo molto diffuso ancora oggi in Sicilia a dimostrazione di quanto fosse diffusa sul territorio isolano questa remunerativa attività economica.
Le canne coltivate nel “cannameleto o cannamelito” giunte ad un’altezza di circa un metro e mezzo venivano tagliate e inviate subito alla lavorazione perché facilmente deperibili. Il prodotto diviso in più pezzi era torchiato per farne uscire il succo che versato in capienti calderoni posti sopra fornelli, veniva cotto a lungo, rimescolato con schiumarole perché non si rapprendesse, eliminando i grumi che affioravano in superficie.
Una volta reso sciropposo dalla prolungata cottura, il liquido veniva versato in apposite forme d'argilla che consentivano la percolazione della melassa e delle relative impurità con conseguente cristallizzazione dello zucchero. C’era bisogno di molto legname per alimentare i fuochi a ciclo continuo e questo ebbe come diretta conseguenza la deforestazione di ampie porzioni di territorio isolano mai più rimboschito. La produzione dello zucchero in Sicilia fu un’attività remunerativa sino alla scoperta dell’America quando gli spagnoli trovarono molto economico avviare produzioni di canna da zucchero nel nuovo mondo, in particolare in Brasile, dove le condizioni climatiche erano molto più favorevoli. La Canna da zucchero sparisce dal panorama vegetale dell’isola per farvi ritorno in tempi recenti, come curiosità botanica venduta alle fiere.
Con questo pezzo di canna in mano che fare per evocare i fasti del passato? Innanzi tutto è d’obbligo gustarne al naturale il dolce sapore dopo avere messo a nudo il midollo spugnoso; è un’ esperienza gradevole che riporta a piaceri dell’infanzia, data la necessità di dovere ciucciare il tessuto vegetale per estrarne il succo.
Poi, seguendo le istruzioni del produttore che me l’ha venduto, taglio la canna sotto l’internodo e la metto in acqua dentro un bicchiere.
Si formeranno radici rizomatose e da una gemma presente sul nodo si formerà un germoglio; ad avvenuta radicazione basterà interrare la talea in vaso o in piena terra per ottenere in una sola stagione un bel culmo ingrossato.
Esteticamente non è gran che ma provo una certa soddisfazione nel possedere un pezzo di storia agricola siciliana sul balcone di casa mia.
Fonti: http://www.editorialeagora.it/rw/articoli/18.pdf ; A. G. Haudricourt, L. Hedin, L'uomo e le piante coltivate, Flaccovio Editore, 1993 Palermo
Fonti: http://www.editorialeagora.it/rw/articoli/18.pdf ; A. G. Haudricourt, L. Hedin, L'uomo e le piante coltivate, Flaccovio Editore, 1993 Palermo