mercoledì 24 giugno 2015

Capperi e cucunci

Quando ero ragazzina, al seguito di mio padre e dei miei zii che essendo insegnanti e, mio zio, medico della mutua, non avevano un gran che da lavorare, ogni pomeriggio nel dopo pranzo si usciva con una vecchia dauphine e i cani andando in giro per le campagne d’intorno a cercare qualcosa da raccogliere.
Che cosa, direte voi?
Ma, ogni stagione aveva la sua “cerca” che in genere cominciava in agosto con l’arrivo delle prime piogge che facevano spuntare i porcini; poi in ottobre e novembre si andava a prataioli o si raccoglievano pere d’inverno in un campo abbandonato vicino Barrafranca; in dicembre si faceva cicoria e funghi di ferla; in gennaio cercavamo narcisi; in febbraio spugnole e anche quando non c’era niente di edule da cercare si usciva lo stesso per andare a raccogliere lana di pecore sbadate che ad ogni passaggio di qua e di la dai recinti lasciavano impigliato al filo spinato metà del loro vello.
In primavera si raccoglievano asparagi e anemoni e poi di nuovo funghi. Ogni uscita era per me appassionante ma con l’avvicinarsi dell’estate il mio entusiasmo nel seguire le cerche parentali subiva un brusco affievolirsi. In luglio, infatti, nel momento più caldo dell’estate, che in Sicilia è tutto dire, alle tre del pomeriggio si partiva per Agira alla cerca di capperi e cucunci.
Il cappero spontaneo ha la pessima abitudine di crescere abbarbicato su impervie pareti di roccia dove solo capre e pastori hanno voglia e modo di andarlo a cercare e raccogliere. Sotto il picco del sole, trovata una pianta adatta alla raccolta, se ne dovevano piluccare i boccioli fiorali (sono questi i capperi) che questa strana pianta mediterranea, dal portamento cespitoso e lunghi rami flessuosi e ricadenti, produce in quantità. 
E non bastava una sola uscita per fare adeguata scorta casalinga di cappero da fare sotto sale, perciò, individuata la zona di raccolta, si doveva dopo qualche giorno ritornare per ripassare le piante precedentemente visitate e raccogliere la nuova produzione di boccioli sperando che nel frattempo i fiori non si fossero aperti.
Ogni fiore di cappero, si sa, è un cappero mancato ma è anche un cucuncio in divenire; i cucunci infatti sono i frutti del cappero che seguono la fioritura e che vanno raccolti in agosto in una coda di cerca appositamente organizzata.
Con il prezioso e sudato bottino, di ritorno a casa, capperi o cucunci si mettevano sotto sale, prima in un contenitore dove venivano fatti spurgare per giorni, poi in barattoli di vetro per la conservazione definitiva.
Nelle isole siciliane, vista la fatica di cercarlo e raccoglierlo in natura, il cappero è stato domesticato da epoche remote facendone una vera e propria produzione agricola.
Cespugli dai tronchi ingrossati e contorti, tenuti bassi da ripetute potature, vengono coltivati in piccoli poderi dove da maggio ad agosto operatori, generalmente extracomunitari, passano a più riprese per effettuare la raccolta. Bisognerebbe spiegarlo ai bambini quanto lavoro e sudore c’è dietro un piccolo cappero, eviterebbero così di  protestare: “Che schifo, mamma, perché ci  hai messo i capperi!" scartandoli uno ad uno dall’insalata di pomodori.
 
Di capperi ne ho parlato anche qui
 

venerdì 19 giugno 2015

Incroci di spezie


Orizzontale: 2:pianta erbacea nativa della valle del Nilo, nota sin dall’antichità, se ne usano i semi dal caratteristico sapore amaro ed odore forte e dolciastro; 4: una Brassicacea dalla tipica radice a fittone; 5: corteccia di un arbusto delle Lauraceae; 6: lo puoi avere bianco, verde e nero; 7: zafferanone; 8: prezzemolo cinese; 10: usato nel gulasch;11: può essere verde, stellato o pepato; 12: bacche blu violetto di una conifera spontanea del Mediterraneo; 13: frutto di Schinus molle; Verticali: 1: E’ forse la spezia più antica che si conosca, con un rizoma carnoso e fortemente ramificato; 3: seme molto odoroso di un albero sempreverde dell’isola di Banda nelle Molucche; 5: zafferano delle Indie; 9: una parte del frutto di Myristica fragrans.
 
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mercoledì 17 giugno 2015

Grewia occidentalis, un arbusto dal nome molesto

Ho incontrato per la prima volta questo gradevole arbusto africano qualche anno fa a Linosa; era coltivato in vaso nel giardino di Giusi, una signora appassionata di piante che nell’isola ha un piccolo ma curatissimo angolo fiorito, pieno di curiosità botaniche.  
Tra un Pachypodium comprato in vaso e diventato albero una volta piantato in terra ed un pergolato di aristolochia dai grandi fiori pendenti come fanali di vecchie carrozze; tra fiori di ibisco dal formato gigante e grandi esemplari di spinosissime Euphorbie milii , c’era un vaso con una pianta che non conoscevo.
“Questa pianta è una grevia”, mi fa Giusi indicando un piccolo arbusto dalla fitta vegetazione di foglie lucenti, punteggiato da fiori colore malva; a sentire la parola grevia rimasi imparpagliata; “Perchè dici che questa pianta è grevia? Cosa ha di così tanto fastidioso ?” E si perché per noi siciliani il termine grevio, da cui anche l’atteggiamento detto grevianza, è un fare scostante, antipatico, insultante quando viene  attribuito ad adulti (botta di grevianza);  se riferito ai bambini è, invece, quel frignare continuato e molesto, senza motivo, che ti fa uscire dai gangheri; il termine grevio d’altra parte deriva dritto, dritto dal latino e significa grevium= greve, pesante, noioso, insultante e chi più ne ha più ne metta. E cosa poteva avere di così antipatico e molesto questa pianta così graziosamente fiorita? Niente, ovviamente;  il fatto era che  la grevia in questione aveva una doppia w al posto della v normale essendo specie denominata Grewia occidentalis; niente a che vedere dunque con la grevianza sicula ma con Nehemiah Grew, botanico inglese della metà del settecento a cui la specie fu dedicata da Linneo nel 1753. 
Una volta a casa ho cercato di reperire informazioni sulla specie che è egregiamente descritta su siti francesi ed inglesi ma quasi del tutto sconosciuta in Italia. In seguito ho avuto ancora modo di incontrarla all’Orto Botanico di Catania e a Calatabiano al vivaio di Laura e Giampietro dove di grevia ce n’è una siepe a ridosso di un muro di confine. Perché questa presenza così sparuta? Non me lo spiego perché Grewia occidentalis è un arbusto di origine sud africana che ha prerogative  di gradevolezza estetica ed adattabilità climatica tali da potere essere coltivata con soddisfazione nei giardini delle calde terre della penisola.

Generalità
Grewia occidentalis è una malvacea originaria delle regioni meridionali dell’Africa che si presenta, in natura come un piccolo arbusto molto ramificato e compatto, dal fogliame semi persistente, che può raggiungere i tre metri d’altezza e che vive in ambienti climatici eterogenei sia aridi che soggetti a gelate come le foreste afro montane. 
 
Ha foglie semplici, coriacee, lucide, dal margine ondulato o dentato e di un colore verde intenso; una tenue pelosità  è presente sulla pagina inferiore della foglia e sui giovani rami. In estate compaiono i fiori di forma stellata, solitari o riuniti in piccole infiorescenze ascellari; hanno un delicato colore rosa mauve con un ciuffo centrale di filamenti viola ed antere gialle (gli inglesi chiamano la grevia: lavender starflower ) e, pur privi di odore, attirano farfalle e altri insetti impollinatori.
I frutti sono bacche unite a formare quattro lobi da cui il nome di crossberry, bacca a incrocio; sono di colore bruno rossastri, persistenti a lungo sulla pianta e molto appetiti dagli uccelli. Da alcune popolazioni africane sono consumati localmente sia allo stato fresco che fermentati, utilizzati per preparare una birra tradizionale o  mescolati con latte di capra per fare yogurt alla frutta.

Sito immagine
Molti siti riferiscono che i semi hanno bisogno di passare attraverso l’intestino di una scimmia per potere germinare ma, in realtà, i semi germinano abbastanza facilmente anche se non si ha una scimmia a disposizione.
In giardino la grevia tollera di tutto, dalla siccità al gelo, dalla luce diretta alla mezz’ombra. Ha un apparato radicale non troppo approfondito che la rende adatta alla coltivazione in vaso  e come bonsai o in piena terra in prossimità di muri di recinzione o confini. L’utilizzo ideale in giardino è per realizzare siepi o come cespuglio isolato ma  i rami si possono portare pure verso l'alto; trovandole un posto riparato sarà dimora perfetta per uccellini e piccola fauna selvatica alla ricerca di un posto intricato dove riparare.

Dove trovarla: Tropicamente

mercoledì 10 giugno 2015

Il fico d'india e la rosa

C’era una volta un fico d‘india  che viveva solitario al margine di una strada.  Come  fosse arrivato fin  lì non è dato sapere ma, anche se il posto era ricoperto dalla polvere sollevata dai veicoli in accelerazione, pure se circondato dalle immondizie lasciate in giro per distrazione e  innaffiato con gli oli combusti di un vicino distributore, il fico d’india si era bene ambientato in  quell’angolo di strada dissestato, diventando con gli anni un grande cespuglio di  pale e di spine.
Ma come è  facile capire in quel posto emarginato non erano state tante le occasioni per socializzare; le altre piante non si erano mai volute avvicinare perché se provieni da molto lontano,  anche se  è da secoli che ti sei insediato e ti senti integrato, sarai sempre  additato  come un povero immigrato e poi  per il carattere diciamo così  molto spinoso,  ruvido e ombroso del fico d’india che spingeva tutti a starsene lontano dalle  sue pale.
Un giorno in quell’angolo di strada polverosa arrivò una rosa; era stata portata in volo sotto forma di seme da un merlo di passaggio che avendo mangiato a sazietà frutti di rosa in un giardino li vicino, si era fermato a riposare e poi a sporcare  sulle pale del fico d’india;  era una rosa bastardina di quelle che non sai perché,  ne per come, di quelle che non ne conosci il nome,  anche lei  probabilmente un’immigrata proveniente dal lontano oriente perché specie sarmentosa e rifiorente.
Il seme in primavera era germogliato e da esso un lungo tralcio di rosa era cresciuto che strisciando a serpente tra le pale le aveva strettamente avvolte in fitte spire.  Li per li il fico d’india non ci aveva fatto caso  ma con il passare del tempo ad ogni refolo di vento  sentiva sulle pale un leggero punzecchiare, un piacevole grattare che lo faceva stare bene; erano le spine della rosa, certo poca cosa rispetto agli aculei cui era abituato ma si sentiva felice come non lo era mai stato, forse per avere trovato qualcuno che gli stesse  accanto e che di spine ne capisse tanto quanto.
Quando a fine maggio la rosa cominciò a fiorire, il fico d'india, oramai perdutamente  innamorato,  non si sentì minimamente sminuito dallo stare nel suo angolo di strada inghirlandato da festoni di fiori color rosa e pieno di gratitudine ed amore,  non sapendo cosa fare per ricambiare,  ricoprì le sue verdi e tozze pale di grandi fiori gialli color del sole.  
Anno dopo anno, in questa stagione, vedendo il fico d’india e la rosa che formano una macchia di colore  non posso fare a meno di pensare che  il loro non sia il vero amore.
 

domenica 7 giugno 2015

Epidendrum ibaguense, un'orchidea facile da coltivare

In genere ci rimango male quando mi sento dire: questa pianta è facile da coltivare e pure tu (sottintendendo: che con le piante non ci sai proprio fare) saresti in grado di non farla morire.
Si, ho la brutta fama di non sapere accudire le piante che tengo sul balcone dove, devo ammettere, c’è un frequente, forse eccessivo, turnover; sarà perché coltivo piante in vaso in un ballatoio che guarda il mare, dove d’estate il caldo le fa stramazzare e d’inverno la pioggia che riempie i sottovasi rischia spesso di farle annegare; sarà perché è così difficile regolare nelle piante in vaso l’acqua da somministrare, poca ogni giorno o tanta a giorni alterni ? E' evidente che la scelta che faccio non è mai congruente; per non parlare del terriccio che così dilavato prima o poi dovrà essere cambiato. E le fitoftore, gli afidi, le formiche ed il ragnetto che delle mie piante fanno banchetto? In genere lascio fare perché anche loro devono pur campare.  Qui,  ora, devo confessare che a me le piante piacciono, soprattutto,  appena comperate quando, nel loro massimo splendore, sono soggetti ideali da fotografare; nel momento in cui il tempo ne  sfuma la bellezza iniziale le piante perdono ai miei occhi molto del loro valore, segnandone la sorte che, presto o tardi, le porterà a morire. E’ stato così anche per Epidendrum ibaguense la più facile delle orchidee da coltivare che Laura un giorno mi ha voluto regalare. Troppa acqua, poca acqua vallo a sapere, fatto sta che anche lei dopo un poco è arrivata a trapassare; ne conservo delle belle foto  ed il ricordo di una  vivace macchia di colore arancione, in balcone. Penso che dalla sua coltivazione ne potrà ricevere tanta soddisfazione chi la  saprà accudire con tutt’altra dedizione.
Epidendrum ibaguense
Il genere Epidendrum comprende circa 400 specie di orchidee epitifite provenienti in massima parte dall’America centrale e del sud e coltivate in tutto il mondo come piante da vaso o da giardino per la bellezza dei fiori. Sono state tra le prime specie di orchidee ad essere conosciute nel vecchio mondo alla fine del settecento, molto apprezzate per la notevole capacità di adattamento e resistenza a condizioni climatiche molto differenti che vanno dal pieno sole, al gelo prolungato, alla siccità, alla forte umidità.
La caratteristica comune alle diverse specie è che lo stelo fiorale si sviluppa partendo da uno pseudo bulbo e che i fiori si aprono in successione. Epidendrum ibaguense, in particolare, sviluppa steli sottili alti fino ad un metro sui quali, partendo dalla base, si inseriscono foglie coriacee, ellittiche, opposte, distribuite  in modo  ben distanziato tra loro. Lungo lo stelo sono anche presenti,   per tutta la sua lunghezza, numerose radici aeree.
All’apice dello stelo si formano infiorescenze dense, tondeggianti formate da fiori di dimensione molto variabili che si aprono in successione e che presentano colori vivaci come l’arancione, che è il più comune,  ma anche rosso, giallo, lavanda, bianco. 


A causa della forma di piccola croce del labello presente al centro del fiore, Epidendrum ibaguense è chiamata comunemente “Orchidea crocifisso”. La fioritura nel nostro clima dura a lungo  partendo dalla primavera e per tutta l'estate perché gli steli sono   rifiorenti. E’ una specie molto resistente, adattabile e di facile coltivazione che vegeta bene all’aperto in tutte le regioni a clima tropicale e temperato. Può essere coltivata facilmente in vaso nei climi dove le temperature invernali non scendono troppo in prossimità dello zero, ritirandola in luogo riparato nel periodo invernale.
Con l’arrivo della bella stagione, però, questa orchidea va messa fuori a godersi il sole ma senza esagerare perché, come è successo a me, può capitare che arrivi a morire per un improvviso colpo di calore. Vista la sua origine tropicale, Epidendrum ibaguense è specie che preferisce una buona umidità atmosferica che farà sviluppare una grande quantità di radici aeree e molti pseudo bulbilli, posti in prossimità dei nodi del fusto; questi, una volta emesse radici, potranno essere staccati dalla pianta madre e rinvasati per produrre nuove piantine. Giampietro e Laura Petiet del vivaio Sun Island Nurcery, la coltivano da tempo in giardino ed in grandi vasi distribuiti intorno la loro casa a Calatabiano, a due passi da Taormina; da quest'anno gli epidendrum  sono entrati a fare parte del loro assortimento varietale insieme a bougainvillea, hibiscus e plumeria. Per contattarli qui.
 

mercoledì 3 giugno 2015

Matrioska, un evento del Chelsea Fringe Italia

Un omaggio alla passione botanica declinata  al femminile

Sono state davvero tante le iniziative che quest’anno hanno reso vario ed interessante il programma del Chelsea Fringe Festival Italia, manifestazione del verde all’insegna della creatività e dell’amore per le piante, per i giardini e l’ambiente naturale espresso in molteplici attività (passeggiate, mostre, istallazioni verdi, visite guidate, presentazione di libri) che si stanno svolgendo in giro per l’Italia, dal 16 maggio e sino al 7 giugno nelle città di Milano, Brescia, Bergamo, Firenze ed in Sicilia, nel comprensorio etneo.
Il successo della manifestazione di quest’anno è stato tale che, ad un programma già vario ed interessante, si sono aggiunte in corso d’opera molte altre iniziative che sono state inserite in una particolare sezione del programma denominata “Other italian gardens” (ultime in ordine di tempo: l’apertura al pubblico del Labirinto della Masone di Francesco Maria Ricci e la presentazione a Torino del libro di Simonetta Chiarugi, Buon Gardening). 

Tra le eventi itineranti che sono stati ospitati  nei giorni scorsi negli Orti Botanici di Milano e Brescia, “Matrioska, la storia di tre grandi donne botaniche del passato”, è un’installazione artistica di Francesca Fadalti , realizzata da Simone Sirtori che dal 3 al 7 giugno farà tappa anche a Bergamo presso l’Orto Botanico Lorenzo Rota; nella giornata del 5 giugno, poi, presso i locali dell’Orto, si terrà una conversazione con Daniela Romano dal titolo: Donne & giardini: divagazioni sul tema.
Non vi nascondo che quando ho letto di questa iniziativa del Fringe mi ha molto incuriosita  l’idea artistica di accostare la vita di tre grandi donne italiane del passato, che hanno dedicato una vita al mondo delle piante ed al giardino, (Agata Giovanna Piccolo, Lady Susana Walton, Eva Giuliana Mameli Calvino)  a tre piccole matrioske in ceramica, poste sotto la protezione di grandi ombrelli carichi di fiori; ne ho perciò chiesto il significato a Francesca Fadalti che mi ha raccontato come le matriosKe, ceramiche di sua ideazione, vogliono essere un omaggio a tutte le donne e un messaggio contro la violenza.
:mecardonia 'gold dust',calibrachoa hibrid superbells in colori assortiti,
verbena peruviana hybrida apricot e strawberry, edera elegantissima,torenia blu e bianca
  Questo antichissimo oggetto è infatti costituito da più pezzi, ogni pezzo si divide in due parti ed è vuoto al suo interno salvo il più piccolo che si chiama seme. Le mie Matrioske rappresentano il seme, uno per ogni protagonista prescelta; al loro interno si racchiude una speranza, un desiderio importante ed è per questo che, nel corso delle diverse esposizioni, ho pregato il pubblico di scrivere un pensiero e di deporlo dentro le matrioske come simbolo delle sogni e dei desideri che ogni persona si porta dentro. Inoltre queste figure stilizzate dal viso costantemente dolce e dall’atteggiamento paziente si prestano a rappresentare la vita delle tre protagoniste prescelte, così come di molte altre donne, che indipendentemente dalle fatiche e dalle prove subite hanno sempre affrontato le avversità con estrema determinazione, con coraggio e amore.
Chi sono le tre matrioske?

Agata Giovanna Piccolo nasce nel 1891 a Palermo; è la maggiore dei fratelli Piccolo, componenti eclettici e stravaganti di una nobile famiglia siciliana, che ai primi del novecento si ritira a vivere a Capo d’ Orlando in provincia di Messina. Agata a differenza dei fratelli viaggia molto poco e rimane sempre confinata in Sicilia accanto alla madre, alla quale era molto legata e con la quale aveva un legame esclusivo e forte tanto da prometterle, insieme ai fratelli di non sposarsi mai per ripagarla della fuga del padre con una ballerina. Appassionata di cucina e di botanica, si dedica con passione alla realizzazione del giardino che contornava la casa. La sua passione per le piante esotiche la portò, prima in Europa ad importare ed acclimatare nel suo giardino una specie esotica da fiore denominata Puya berteroniana della famiglia delle Bromeliaceae che ad inizio estate produce incredibili fiori blu. La baronessa notificò e descrisse i risultati di questo suo esperimento in un bollettino del Giardino Coloniale di Palermo (Vol. XX-VI, 1963).
Alla sua matrioska, nell'istallazione artistica,  è accostata una pianta di hibiscus per simboleggiare l'amore della Baronessa per le piante esotiche. 
Giuliana Mameli Calvino nasce a Sassari nel 1886 laureandosi in matematica nel 1905. Continua gli studi laureandosi anche in Scienze Naturali, prima donna italiana laureata in questa disciplina e prima donna ad ottenere la cattedra universitaria di Botanica. La sua fama di studiosa giunge sino a Cuba dove Mario Calvino, agronomo sanremese, dirigeva la Stazione Sperimentale Agronomica di Santiago de la Vegas. Calvino dovendo inserire nel suo gruppo di lavoro un botanico esperto di genetica, in occasione di un viaggio di lavoro in Italia, si reca in visita dalla Mameli. Fu amore a prima vista tanto da chiederle di sposarlo urgentemente e partire con lui. Per quanto eccentrica la richiesta fu accettata e dopo un mese la Mameli raggiunse il marito a Cuba dove dopo qualche anno nacque il figlio Italo. Di ritorno dopo alcuni anni, in Italia, entrambi cominciano a lavorare per la Stazione Sperimentale di Floricoltura di San Remo dedicando tutte le loro energie alla floricoltura, al giardinaggio e all’introduzione ed acclimatazione in Liguria di numerose specie tropicali (avocado, schinus molle, annona, pompelmo, feijoa e  altre ancora). Giuliana si impegna molto nel lavoro di promozione della floricoltura anche a livello amatoriale e dirige perciò con il marito due riviste tecniche, pubblica più di 200 testi e si impegna nella redazione della rivista Il giardino fiorito fondata nel 1931. Instancabile  nella sua passione per l'ambiente fu uno dei soci fondatori dei primi comitati italiani per la protezione degli uccelli utili in agricoltura e tra le sue proposte vi fu la collocazione di nidi artificiali sugli alberi e nei giardini.
La sua matrioska  è accompagnata da un nido opera di Simone Sirtori
 
 
Susana Valeria Rosa Maria Gil Passo (1926-2010) nasce in Argentina da una famiglia benestante e all'età di 22 per rendersi indipendente dalla famiglia comincia a lavorare  per il Consolato Britannico di Buenos Aires dove conosce William Walton, compositore quarantaseienne, genio della musica britannica. La sera stessa, Walton sorprende Susana chiedendole di sposarlo; dopo due settimane si sposano e due mesi dopo partono per l’Europa. La coppia nel 1949 si stabilisce a Forio di Ischia dove acquista un terreno in una gola di origine vulcanica per costruirvi la propria casa. E' Russell Page che disegna il giardino ma è soprattutto Susana che si dedica  con la sua leggendaria energia e competenza botanica alla sua realizzazione facendo di un luogo arido ed impervio un paradiso di specie esotiche. La sua matrioska è contraddistinta da sassi blu ed una pianta di mirto in ricordo dei Giardini La Mortella alla cui realizzazione la Walton si è dedicata tutta la vita.

Se l'argomento  vi interessa e vorrete continuare a conversare di “Donne e botanica “ non dovrete mancare allora  il prossimo appuntamento con Daniela Romano, giorno 5 giugno alle 18,30 nei locali dell’Orto Botanico di Bergamo.
 
 
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